Magazine Media e Comunicazione
La crisi della cosiddetta terza pagina nei nostri giornali ha dell'imbarazzante. Queste, dove esistono, si stanno gradualmente trasformando in numeri monografici, in contributi pressoché accademici su un canone culturale già preselezionato, presentazioni ricchissime - e inadatte alla lettura veloce, usa & getta di un giornale - di libri, spettacoli, eventi a cui pochi accederanno per il fatto che ne hanno letto sul giornale. In media, questi "pezzi" non fungono da invitations aux voyages, bensì da specchio e spazio riservato a quei pochi, pochissimi, che per altre vie o in altri ambiti, ci sarebbero arrivati; o ancora per quelli che in altri ambienti - che, per comodità, definirei accademie, senza disprezzo, stavolta - troveranno spazio e ragione per discuterne.
Di contro, quando ci sono, le Lettere al Direttore (o ai caporedattori di rubrica) si gonfiano a dismisura. Colmano ora il vuoto delle pubbliche amministrazioni, ora la solitudine che pervade le persone incapaci di accedere a un mondo tanto complesso come il nostro - semplificato delittuosamente per puri scopi pubblicitari - ora, ed è qui che mi interessa arrivare oggi, per sostituire con un effimero scambio di botta & risposta il confronto sui temi più svariati. Ma questo scambio si chiude lì per il pubblico: anche se qualcuno riscrive, si è persa memoria nei più della questione, che viene trattata - nonostante l'importanza degli argomenti spesso affrontati - come affari privati, crucci personali più o meno oziosi, da gettare via in questa sordità in cui affoghiamo.
I quotidiani, nel loro insieme, hanno smesso di farsi soggetto di crescita civile. Sono autoreferenziali nei loro interessi politici ed è praticamente scomparso il genere recensione. Questo accade perché una recensione va a toccare nervi scoperti della sensibilità individuale di chi porta avanti un discorso artistico, che nei casi migliori diventa anche discorso esistenziale. Ma chi ha un'idea di cosa fosse la critica negli anni passati (neanche lontanissimi), sa che non si era poi delicati - anzi, si esagerava spesso in senso opposto - con chi non convinceva, anzi. Il problema vero, secondo me, è un altro: la cultura è drogata dal potere, dallo stesso potere politico (apartitico) che gestisce l'editoria di consumo. Scrivere recensioni, criticare qualcuno, oggi significa entrare nel merito dell'operato del proprio schieramento politico o di quello avversario e dei finanziamenti relativi.
Perché la cultura ha bisogno di finanziamenti pubblici e si fa di tutto, assolutamente di tutto, perché non si possa reggere da sola, pubblicizzando stili di vita easy-to-go, spensierati, consumistici e violenti, in modo tale che la maturazione di contenuti e contraddizioni resti privilegio di pochi, dopo l'illusione democratica del dopoguerra. In questo stato di fatto, scrivere che uno spettacolo è andato male, che un libro è brutto, che una mostra è mal illuminata non va a ledere tanto la sensibilità dell'artista, di cui non importa a nessuno (ragion per cui l'artista è più fragile ancora e isolato), bensì gli interessi di chi ha sponsorizzato l'evento per ragioni sempre insondabili e talvolta anche piuttosto grette.
A me interessa che questo blog sia uno spazio libero e aperto. Se ancora trovo pochi commenti in loco è perché spesso la discussione in merito avviene su Facebook, dove l'accesso allo scambio è più immediato e funzionale a un piccolo dibattito virtuale. Ma un social network non è la soluzione a questa sordità, a questo parlare istintivo e nervoso che non fa cultura. Questo blog è e rimarrà un fallimento finché non creerà ragioni di discussione al di fuori della mia bacheca di Facebook, rimarrà lo spazio in cui posso scrivere e vedere il mio nome scritto sopra. Ma non sono così vanesio: non mi interessa il mio nome scritto sopra a niente, altrimenti prendo la penna e lo scrivo dove mi interessa. Non ho bisogno del nome per gratificarmi della mia vera o presunta creatività. Io intendo discutere e sono qua per questo: se non discuto, non imparo e rimango chiuso nelle mie ostinazioni, che non sono e non saranno mai idee senza l'altro.
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