Sta accadendo ciò che in questi pixel avete potuto leggere quasi un anno fa,
ormai confermato da tutte le istituzioni finanziarie mondiali, ultima arrivata
la World Bank.
Andiamo con ordine:
La Cina
Dopo oltre venti anni di crescita poderosa trainata dalle
esportazioni e dal settore della manifattura, la Cina si trova a dover
modificare il duo modello di sviluppo. Gli investitori, già da qualche mese,
stanno riconsiderando le prospettive di
crescita dell’economia cinese e anche la capacità delle autorità di
far fronte in modo efficacie alle fide che l’economia cinese si trova ad
affrontare, impegnata a modificare radicalmente il modello di sviluppo,
passando da un’economia particolarmente vocata alle esportazioni e agli
investimenti infrastrutturali -motori di crescita degli ultimi decenni- a
un’economia dove i consumi e servizi assumano carattere predominante, e
diminuire l’indebitamento determinato dagli stimoli fiscali successivi alla
grande recessione (lo abbiamo detto QUI).
Fatto è che la Cina si trova in una fase di graduale deterioramento che
mal concilia con la crescita esponenziale del debito privato che è
salito ad oltre il 200% del Pil.
Inoltre, lo scorso novembre, le autorità
cinesi, proprio per prevenire il ripetersi degli eccessi che hanno
portato alla formazione della bolla sul mercato azionario (e al conseguente
scoppio), hanno inasprito le garanzie richieste per operazioni di margin debt
(lo abbiamo detto QUI)
I Paesi Emergenti
La minore domanda di materie prime da parte della Cina
si riflette nelle economie di quei paesi che negli ultimi anni hanno
goduto della poderosa crescita cinese, in quanto fornitori di materie
prime. Le economie emergenti non sono come erano 20 anni fa, e in
termini dimensionali sono molto più importanti di allora. Sono anche più
integrate con il resto del mondo, sia negli scambi commerciali che nel flussi
finanziari. Da ciò se ne deduce che la crescita (o la decrescita) di tali
economie agisce in modo più incisivo sulle performance delle economie
sviluppate, e quindi anche sui mercati finanziari. Approfittando dei
tassi di interesse estremamente bassi nei paesi avanzati, le
banche e le imprese dei mercati emergenti si sono pesantemente
indebitate in dollari come mai in passato. Se il tasso di interesse locale
è al 15% annuo e il tasso di interesse dell'indebitamento in dollari è del 2%,
ha senso prendere prestiti in dollari fino a quando la valuta nazionale non si
deprezzi del 13% rispetto al dollaro. La forza del dollaro rispetto alle
valute emergenti (che si sono schiantate)
implica che le aziende indebitate in Usd ora devono dedicare una quota molto
maggiore dei propri ricavi all'ammortamento dei loro piani di indebitamento. La
situazione si fa ancor più grave per le molte aziende dei mercati emergenti che
hanno contratto prestiti in dollari e che hanno entrate in valuta locale. Non
è un caso che i tassi di default delle obbligazioni emergenti tendono ad
aumentare nei periodi di forza del dollaro (Lo abbiamo detto QUI, quasi un anno
fa).
Ne consegue che le imprese, nella migliore delle
ipotesi, dovranno tagliare i costi per rendere le loro attività più
profittevoli, in modo che possano avere maggiori margini idonei a smaltire
l'indebitamento in valuta forte. Nei casi più estremi, invece, gli stati
dovranno intervenire per soccorre attività altrimenti condannate al dissesto,
con ovvie ripercussioni sul debito pubblico e sui rispettivi bilanci che, nel
caso di paesi produttori di petrolio, sono già gravati dall'onere derivante
dalla caduta dei prezzi del petrolio, che impatterà significativamente sulla
crescita e quindi sulle politiche fiscali che tenderanno ad irrigidirsi.
Il crollo del prezzo del petrolio
Come abbiamo detto in precedenza, diverse aree del mondo
stanno attraversando una fase di crescita a ritmi meno sostenuti rispetto al
passato, quindi hanno bisogno di minori quantitativi di petrolio. Le
innovazioni tecnologiche introdotte in molti settori produttivi e della vita
comune hanno determinato anche una maggiore efficienza nei consumi di petrolio
e suoi derivati. Non solo. Negli ultimi anni gli Stati Uniti sono
diventati tra i più grandi produttori di petrolio, grazie alle aziende operanti
nell’estrazione del petrolio ottenuto dagli scisti bituminosi. Gli Usa hanno
quindi una capacità produttiva che consente di alimentare le riserve di
petrolio e importano molto meno rispetto al passato. I paesi Arabi, anche per
via dei bassi costi di estrazione – che consentono di ottenere margini di
profitto anche a prezzi più bassi, ma ora, a questi livelli di prezzo, sono in
difficoltà anche loro – hanno deciso di non sacrificare la propria quota
di mercato per ripristinare livelli di prezzo più alti.
Un’offerta di greggio abbastanza sostenuta
a fronte di una domanda in contrazione, consente ai paesi arabi di sbarazzarsi
dei concorrenti più vulnerabili nel settore petrolifero. Questi includono i
frakers americani che hanno bisogno di prezzi alti per via di costi di
estrazione elevati e per il forte indebitamento che ha finanziato attività
estrattive poco profittevoli (o in perdita) a regimi di prezzo di più basso.
Includono le compagnie occidentali con progetti ad alto costo volti alla
perforazione dei fondali del mar artico; e, soprattutto, alcuni paesi emergenti
i cui bilanci dipendono in ampia parte dai profitti derivanti dalla vendita del
petrolio. Russia in primis, che sta soffrendo anche l'effetto delle sanzioni
imposte dall'Europa e dagli Usa. I frakers americani (ma non solo) che hanno
contratto prestiti obbligazionari per finanziare gli investimenti in attività
estrattive (anche grazie al basso costo del denaro), trovandosi con minori
ricavi per via della caduta dei prezzi, oltre ad essere costretti ad annullare
progetti di sviluppo, sono in difficoltà nel rimborso dei prestiti contratti, e
nei casi più estremi falliscono. Ecco spiegate le pesanti vendite
delle scorse settimane sul mercato delle obbligazioni high yeld. (lo abbiamo scritto un anno fa, QUI)
La forza del dollaro e la debole crescita negli Usa
La Federal Reserve, a metà dicembre, ha abbandonato la
politica dei tassi a zero, dopo circa sette anni di politiche ferocemente
accomodanti. I mercati si attendono circa tre rialzi per l'anno in corso.
Tuttavia, complice anche la forza del dollaro (indotta anche dalle attese di
rialzo sui tassi e dalla svalutazione orchestrata dalle altre banche centrali)
il ritmo di crescita degli Usa sembra essere diminuire, come suggeriscono gli
ultimi dati diffusi.
Con livelli di inflazione
discendenti e un quadro macroeconomico in rallentamento, un numero
impressionante di banche centrali si sono precipitate in manovre espansive:
fino a quando si sono mantenuti sopra lo zero, hanno agito sulla leva dei
tassi; esaurita la possibilità di agire sui tassi, sono passati a manovre
di quantitative easing e hanno portato i tassi in
territorio negativo. Un territorio inesplorato.
Ma se tutti svalutano è come se nessuno svaluta. E nella corsa globale alla
svalutazione, pensare che una sola economia (quella USA) possa assorbire gli
effetti della svalutazione di tutte le altre valute, è del tutto fuori da ogni
logica. Se da un lato le economie che svalutano godono di una
maggiore capacità di esportare per via di una moneta più competitiva,
dall'altro, l'economia che rivaluta (in questo caso il dollaro) patisce una
perdita di competitività per via di una moneta più forte, che determina minori
esportazioni. Non è un caso che il dollaro forte stia mettendo sotto pressione
gli utili delle società USA. Le preoccupazioni di cui abbiamo già scritto un
anno fa (QUI) emergono anche dalle
minute della Federal Reserve della riunione dello scorso dicembre, pubblicate
proprio ieri (le potete leggere QUI). Oltre ad esprime
questi dubbi, la Federal Reserve, parlando di inflazione, dice che non sarà
semplice raggiungere il target del 2%. Afferma inoltre che la politica
monetaria sarà comunque dettata dall'evoluzione dell'economie. Quelle appena
accennate sono tutte questioni che pongono più di un dubbio sullo stato di
salute dell'economia Usa e, necessariamente, si riflette suo mercati già alle
prese con non poche criticità.
La delicatezza delle scenario geopolitico e i venti di guerra in Medio
Oriente
Dopo gli attentati di Parigi, la crisi in Medio Oriente sembra aver subito
un salto di qualità, con molti paesi che, anche se in maniera defilata (ma
nemmeno troppo), stanno fronteggiando interessi divergenti in quelle aree:
interessi i cui esiti sono di difficile immaginazione e comunque assai
imprevedibili. Ad aggravare la situazione, ha contribuito anche la rottura
delle relazioni tra Iran e Arabia Saudita (potete leggere QUI). Inoltre, l'Arabia Saudita ha tagliato ieri all’improvviso i
prezzi del greggio ai clienti europei, Italia compresa. Gli sconti fanno
seguito alla rottura dei rapporti diplomatici nei giorni scorsi tra Arabia
Saudita e l'Iran, e, in linea più generale, allo scontro tra sunniti e
sciiti. Riyadh e i musulmani sunniti hanno interrotto i rapporti diplomatici
con l'Iran dopo che l'ambasciata saudita è stata incendiata a Teheran in
seguito all'esecuzione in Arabia Saudita dell’imam sciita al-Nemer Nemer il 2
gennaio scorso. Non ultimo, a complicare il fragile quadro geopolitico è
intervenuta anche la Corea del Nord che, a sorpresa, ha effettuato un
quarto test nucleare affermando di aver utilizzato "con successo", e
per la prima volta, un ordigno a idrogeno, passo ulteriore per lo status di
Superpotenza militare. Una mossa che ha spiazzato la Cina, l'alleato
storico, e che ha trovato l'immediata e durissima condanna di Usa, Corea del
Sud, Giappone (e Russia), con tanto di convocazione d'urgenza del Consiglio di
sicurezza dell'Onu. Dopo l'annuncio, nuove sanzioni in vista per Pyongyang
anche se il test lascia forti dubbi tra gli esperti.
Le previsioni di crescita secondo la Banca Mondiale
Per completare il quadro sopra descritto (sicuramente complesso e articolato), c'è da dire che, mercoledì scorso, la World Bank, proprio alla luce della questioni di cui abbiamo scritto sopra, ha ridotto le previsioni di crescita mondiale portandole al 2.9% dal 3.3% di giugno scorso, peraltro segnalando anche la possibilità di ulteriori revisioni al ribasso.