Mi sento un vecchio vagone con le ruote arrugginite e i semiassi spaccati. La cabina di legno mezzo distrutta, i sedili bruciati o divelti, il tetto scoperchiato: una tenda sbrindellata sbatte contro un finestrino rotto. Portavo qualche insegna, qualche scritta, ma il tempo l’ha sbiadita.
Sono fermo da decenni, sciacciato contro un new jersey che segna un binario morto.
Se guardo a sinistra c’è una vecchia galleria, quella per la quale ero stato costruito, prima che la ferrovia fosse deviata più a nord.
A destra vedo il deserto sconfinato, con qualche albero moribondo, sparpagliato nella terra rossa, le dune sabbiose, corrugate dall’azione del vento, monti in lontanaza che al tramonto prendeno riflessi violastri.
I miei giorni e le mie notti sono sempre identiche, aride, ventose, polverose, che se non fossi fermo, mi fermerei per sempre.
La notte guardo in su, e vedo miliardi di stelle. Miliardi. Che mi chiamano. Ma tanto, non posso andare.
Poi ricomincia il giorno.
Ora, vi chiedo, cosa volete da me, cosa volete che vi dica, cosa volete che vi riveli che già non sapete per conto vostro?
Perchè venite qui? Cosa ci trovate qui?
Qui c’è solo un vagone bloccato che sogna di essere un’astronave.
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