Che cos’è che fa di un uomo un uomo? Forse le sue origini, o il modo in cui nasce alla vita? Io credo che ciò che fa di un uomo un uomo…. sono le scelte che fa: non come comincia le cose, ma il modo in cui decide di finirle.
Che cos’è che fa di un uomo un uomo? Forse le sue origini, o il modo in cui nasce alla vita? Io credo che ciò che fa di un uomo un uomo…. sono le scelte che fa: non come comincia le cose, ma il modo in cui decide di finirle.
Credo che nella vita di noi allenatori sia “fisici” che “mentali” a tutti siano capitate situazioni in cui riconosciamo un altissimo potenziale a persone che manifestano la voglia di “smettere”.
Come dovrebbe comportarsi un coach in queste situazioni?
Dovrebbe pensare solo al bene degli atleti, o pensare a livello di collettivo oppure individuale? Oppure ancora, pensare all’autorealizzazione di se stesso? In ogni caso, in ciascuna delle ipotesi sopra elencate: che scelta fare? Come comportarsi? Cosa dire?
Vorrei portare un esempio che a mio parere calza molto. Alcuni anni fa mi è capitato di arrivare in una squadra (stiamo parlando di nuoto agonistico) come capo allenatore e, rendendomi conto del potenziale di ognuno dei componenti della squadra, ho individuato un ragazzo che secondo me aveva un talento impressionante!
Benchè l’allenatore precedente non fosse riuscito a valorizzarlo, in un paio di stagioni siamo arrivati a vincere due medaglie ai Campionati Nazionali Giovanili che gli sono valsi la convocazione in Nazionale giovanile per una competizione europea, nella quale ha portato a casa ben tre medaglie.
Fin qui tutto benissimo ma, poi sono arrivati i problemi. In primis fisici, pare che l’eccessivo stress legato agli ultimi 4 mesi gli abbia scombussolato i valori pressori e quindi è stato messo sotto stretta osservazione.
Dopo poco sono sopraggiunti anche degli ostacoli mentali: il ragazzo ha esordito nella nuova stagione dicendo “Quello che potevo fare nel nuoto l’ho già ottenuto”. A parer suo non aveva più senso continuare.
Aiutato dal padre commisi un errore che nessun allenatore dovrebbe fare: ho insistito, l’ho spinto e quasi forzato ad andare avanti. Pensavo che il ragazzo avesse ancora molto da dare nel nuoto… o era solo il mio ego che non voleva perdere il suo quarto d’ora di notorietà?
Fatto sta che a metà stagione ha cominciato a saltare gli allenamenti per settimane intere.
Io ero arrabbiatissimo, non ci stavo a questo gioco!
Fortunatamente ho capito e ho pensato alla sua vita e al suo bene: l’ho chiamato e gli ho detto, da amico, che secondo me doveva smettere con il nuoto e dedicarsi ad altro.
E così ha fatto, risollevato, perchè avevo preso io una decisione che evidentemente non riusciva a prendere da solo.
Alla luce di tutto ciò, suggerisco ai miei colleghi di provare a guardare sempre le cose da una distanza maggiore e cercare di guardare oggettivamente il quadro complessivo: è davvero sempre giusto insistere in nome del senso del dovere, in nome del portare a termine qualcosa o in nome del dare sempre il massimo e non arrendersi mai?
Non ci sono forse delle circostanze in cui la scelta più giusta e più coraggiosa è quella di lasciar andare, smettere, cambiare?
Il mental coach sportivo sa riconoscere i segnali e sa portare l’atleta ad ammettere con se stesso e con gli altri cosa davvero vuole per il proprio bene.
Un buon “coach” fisico o mentale che sia non può prescindere dal leggere, decifrare, capire ed essere in grado di attuare le giuste misure che vadano tutte in direzione del benessere della persona, senza che siano influenzate da fattori che possano ledere questa “coscienzialità” che ognuno di noi dovrebbe mettere al primo posto della scala dei propri valori.