Cose dette bene sullo Stato Islamico

Creato il 06 settembre 2014 da Danemblog @danemblog
Luciano Larivera ha scritto sul "Quaderno N°3941 del 06/09/2014" di Civiltà Cattolica, un bellissimo articolo sulla situazione in Iraq. È una ricostruzione realistica e una lettura lucidissima della situazione. Una delle migliori analisi che ho letto fin qui (e vi assicuro di averne lette tante, ma tante) sullo Stato Islamico e a mio modesto parere può rappresentare un pezzo fondamentale per interpretare le circostanze. (Tra l'altro, circostanza rara quanto apprezzabile, lo Stato Islamico ─ l'IS, il Califfato ─ viene sempre scritto in quanto tale, e mai utilizzando acronimi ormai superati dai fatti del 29 giugno ─ come Isis o Isil, in questo momento pura convenzione giornalistica).
L'articolo si intitola "Fermare la tragedia umanitaria in Iraq": per le ragioni di cui sopra, di seguito lo riporto per intero.
Stati Uniti, Unione europea, Nazioni Unite e Governo iracheno non sono riusciti a impedire la violenza contro le popolazioni cristiane, yazide, shabak, turcomanne, sciite e sunnite «moderate» a Mossul e nella piana di Ninive. Per loro non è rimasta, secondo i casi, che la conversione forzata, la morte, la schiavitù (per le donne) o la fuga. Anche ad Aleppo, la più grande città siriana, i cristiani temono la «pulizia religiosa» o la fuga forzata, se le milizie dell’Islamic State in Iraq and Sham (oLevant) prenderanno il controllo dei loro quartieri.
Lo Stato e Califfato islamico — come l’Is si è proclamato dall’inizio del ramadan il 29 giugno — ha potuto assediare a morte migliaia di yazidi sulle montagne irachene del Sinjar, prendere il controllo della diga di Mossul e avanzare verso Erbil, capitale della Regione autonoma del Kurdistan iracheno. In agosto sono iniziati sia i bombardamenti aerei statunitensi per liberare gli yazidi, riconquistare la diga e alleggerire la pressione dei jihadisti; sia le iniziative occidentali per rinforzare l’apparato bellico dei curdi iracheni; sia le missioni di soccorso umanitario agli sfollati, che sono stati accolti dai curdi, anche in Siria. Adesso per molti delle centinaia di migliaia di iracheni in fuga soltanto l’esilio sembra garantire un minimo di sicurezza e prosperità.
Gli interventi della Santa Sede
In diversi modi e varie occasioni Papa Francesco, gli Organi della Santa Sede e l’Episcopato iracheno e mediorientale, come pure i vescovi italiani e di tutto il mondo, sono intervenuti per implorare la pace in Iraq e in Siria e chiedere soccorsi internazionali.
Al termine della preghiera dell’Angelus del 20 luglio scorso, il Santo Padre lanciava un pressante appello per ricordare nella preghiera le comunità cristiane in Iraq: «Ho appreso con preoccupazione le notizie che giungono dalle Comunità cristiane a Mossul (Iraq) e in altre parti del Medio Oriente, dove esse, sin dall’inizio del cristianesimo, hanno vissuto con i loro concittadini offrendo un significativo contributo al bene della società. Oggi sono perseguitate; i nostri fratelli sono perseguitati, sono cacciati via, devono lasciare le loro case senza avere la possibilità di portare niente con loro. A queste famiglie e a queste persone voglio esprimere la mia vicinanza e la mia costante preghiera. Carissimi fratelli e sorelle tanto perseguitati, io so quanto soffrite, io so che siete spogliati di tutto. Sono con voi nella fede in Colui che ha vinto il male! E a voi, qui in piazza e a quanti ci seguono per mezzo della televisione, rivolgo l’invito a ricordare nella preghiera queste comunità cristiane».
Nella lettera del 9 agosto al Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, il Pontefice ha scritto: «Nel rinnovare il mio appello urgente alla comunità internazionale a intervenire per porre fine alla tragedia umanitaria in corso, incoraggio tutti gli organi competenti delle Nazioni Unite, in particolare quelli responsabili per la sicurezza, la pace, il diritto umanitario e l’assistenza ai rifugiati, a continuare i loro sforzi in conformità con il Preambolo e gli Articoli pertinenti della Carta delle Nazioni Unite»1.
Successivamente il Pontefice, non potendosi recare di persona in Iraq, vi ha inviato, dal 12 al 20 agosto, il cardinale Fernando Filoni, Prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. L’ex-nunzio a Baghdad, durante i bombardamenti e l’intervento anglo-statunitense del 2003, ha potuto assistere alla tragedia umanitaria in corso; prendere contatto con le vittime, portando la parola di speranza del Papa e propria, soprattutto durante la sua permanenza ad Erbil e nelle altre città del Kurdistan iracheno, dove gli sfollati hanno ricevuto generosa accoglienza; ha potuto, quindi, incontrare le autorità civili ed ecclesiali di quei luoghi.
In una lettera firmata l’8 agosto, e consegnata dall’Inviato personale del Papa al presidente iracheno Fuad Masum, il Pontefice ha scritto: «Mi rivolgo a lei con il cuore pieno di dolore mentre seguo la brutale sofferenza dei cristiani e di altre minoranze religiose costretti a lasciare le loro case, mentre i loro luoghi di culto sono distrutti». Il Papa poi ha ricordato gli sforzi compiuti perché l’Iraq sia messo sulla strada della convivenza pacifica, nella quale i membri delle minoranze vengano considerati cittadini alla pari degli altri. Ha rinnovato il suo appello «a tutti gli uomini e le donne che hanno responsabilità politiche perché usino tutti i mezzi per risolvere la crisi umanitaria». Infine ha espresso gratitudine «per tutto quello che il popolo iracheno può fare per alleviare le sofferenze dei suoi fratelli e sorelle»2.
Poi, il 18 agosto, il Patriarca di Babilonia dei Caldei, Louis Sako, ha fatto queste richieste a Paesi e Organizzazioni internazionali con maggiore responsabilità morale: «1. Intervenire immediatamente portando aiuti di prima necessità: acqua, cibo medicinali, servizi sanitari ecc. 2. Liberare i villaggi e i luoghi occupati il più presto possibile e in modo stabile. Non bisogna lasciar morire la speranza delle popolazioni. 3. Assicurare una protezione internazionale a questi villaggi per incoraggiare le famiglie a rientrare nelle loro case e continuare la loro vita normale in sicurezza e pace. Più volte la gente ci ha gridato: aiutateci a ritornare a vivere!».
Lo stesso giorno, in aereo, di rientro dal suo viaggio apostolico in Corea (13-18 agosto), Papa Francesco ha parlato della tragedia irachena e della guerre nel mondo nel corso dell’incontro con i giornalisti al seguito (cfr Oss. Rom., 20 agosto 2014, 4 s.). Alla domanda: «Lei approva questo bombardamento americano attuato per prevenire il genocidio e difendere le minoranze anche cattoliche?», il Pontefice ha risposto: «In questi casi, dove c’è un’aggressione ingiusta, posso soltanto dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto. Sottolineo il verbo: fermare. Non dico bombardare, fare la guerra, ma fermarlo. I mezzi con i quali si possono fermare, dovranno essere valutati. Fermare l’aggressore ingiusto è lecito. Ma dobbiamo anche avere memoria! Quante volte, con questa scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto una vera guerra di conquista! Una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, è stata l’idea delle Nazioni Unite: là si deve discutere, dire: “È un aggressore ingiusto? Sembra di sì. Come lo fermiamo?”. Soltanto questo, niente di più». Il Papa ha concluso: «Perché a me dicono: “I cristiani, poveri cristiani...”. Ed è vero, soffrono. I martiri, sì, ci sono tanti martiri. Ma qui ci sono uomini e donne, minoranze religiose, non tutte cristiane, e tutti sono uguali davanti di Dio. Fermare l’aggressore ingiusto è un diritto dell’umanità, ma è anche un diritto dell’aggressore, di essere fermato per non fare del male».
Rispondendo a un giornalista giapponese, il Papa ha poi affermato: «E oggi noi siamo in un mondo in guerra, dappertutto! Qualcuno mi diceva: “Lei sa, Padre, che siamo nella Terza Guerra Mondiale, ma ‘a pezzi’?”. Ha capito? È un mondo in guerra, dove si compiono queste crudeltà». E ha proseguito con una duplice riflessione: «Vorrei fermarmi su due parole. La prima è crudeltà. Oggi i bambini non contano! Una volta si parlava di una guerra convenzionale; oggi questo non conta. Non dico che le guerre convenzionali siano una cosa buona, no. Ma oggi arriva la bomba e ti ammazza l’innocente con il colpevole, il bambino, con la donna, con la mamma... ammazzano tutti. Ma noi dobbiamo fermarci e pensare un po’ al livello di crudeltà al quale siamo arrivati. Questo ci deve spaventare! Non lo dico per fare paura: si può fare uno studio empirico. Il livello di crudeltà dell’umanità, in questo momento, fa piuttosto spaventare.
«E l’altra parola sulla quale vorrei dire qualcosa, e che è in rapporto con questa, è la tortura. Oggi la tortura è uno dei mezzi quasi — direi — ordinari dei comportamenti dei servizi di intelligence, dei processi giudiziari… E la tortura è un peccato contro l’umanità, è un delitto contro l’umanità; e ai cattolici io dico: torturare una persona è peccato mortale, è peccato grave! Ma di più: è un peccato contro l’umanità. Crudeltà e tortura. Mi piacerebbe tanto, a me, che voi nei vostri media, faceste delle riflessioni: come vedete queste cose, oggi? Com’è il livello di crudeltà dell’umanità? E cosa pensate della tortura? Credo che farà bene a tutti noi riflettere su questo».
Un commento: per la pace giusta
Il Pontefice, nel suddetto incontro del 18 agosto, ha ribadito la dottrina del Catechismo della Chiesa Cattolica sulle condizioni dell’uso moralmente giusto della forza militare (ius ad bellum), e sul ruolo apicale e legittimante del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e del diritto internazionale, che include il diritto umanitario (ius in bello)3.
Il grido profetico della Chiesa è: «Mai più la guerra!». Il suo magistero non si riduce alla «giustizia della e nella guerra», ma si incentra e si fonda sulla «pace giusta» e sulla solidarietà («carità») internazionale. Essa non si occupa di proporre strategie e tattiche belliche. Questo non rientra nella sua missione e nelle sue competenze. Questo spetta alle autorità civili e militari e ai laici esperti, anche cattolici.
La Chiesa si esprime legittimamente nel chiedere di fermare l’ingiusto aggressore; nel giudicare la necessità militare o meno di un intervento armato come ultima ratio della politica (cfr Papa Francesco nel settembre 2013 contro i bombardamenti statunitensi in Siria, e Giovanni Paolo II contro l’invasione in Iraq nel marzo 2003); nel verificare la legittimità del processo politico che decida per l’intervento armato; così come nel denunciare ogni genere di crimine, e in particolare il non rispetto della proporzionalità degli effetti nell’impiego della forza legittima.
La Santa Sede si pone in prima linea nel promuovere soluzioni diplomatiche di compromesso intelligente e nel soccorrere le popolazioni in emergenza umanitaria, potendo usare anche gli strumenti della Caritas internationalis e della collaborazione delle Chiese locali e delle ong cattoliche. Propone e sostiene il più ampio consenso internazionale al fine di aiutare gli indifesi e gli indigenti. Al loro benessere è infatti funzionale la sicurezza locale, regionale e globale, che si deve fondare sulla condivisione dei poteri sovrani e sulla corresponsabilità di ogni Stato, in proporzione alle sue possibilità.
Ciò esige che vadano potenziati gli organismi internazionali e le istituzioni statali chiave. In primo luogo è fondamentale il consolidamento di un esercito, di una polizia e di un apparato giudiziario nazionali, inter-tribali in Iraq, Afghanistan ecc. Perché sempre più problemi «comuni e in comune» travalicano le possibilità di soluzioni nazionali o regionali. E perché non ci siano zone nel mondo non governate (ossia in mano a criminali e terroristi).
La Chiesa non sostiene un pacifismo imbelle e ingenuo al fine di condannare un militarismo che assolutizza l’efficacia della violenza. La sua proposta per il progressivo disarmo mondiale (anche delle idee e nei cuori) si associa alla graduale realizzazione di istituzioni sovrannazionali efficaci, perché innanzitutto esse creano fiducia tra gli Stati. E così promuovono la buona fede nella stipula degli accordi interstatali, come pure l’accoglienza sia delle verifiche sul rispetto dei patti sia delle sanzioni comminate da organismi terzi o comuni.
Ovviamente, per promuovere la pace è necessario conoscere che cosa è veramente la guerra (e non che cosa vorremmo che fosse), perché è una costante nella storia umana. Anche se preferiamo che nessuno usi la violenza perché un altro assecondi i propri voleri e accetti la «pace» che gli si voglia imporre. Tuttavia occorre conoscere e maneggiare ancora meglio tutti i mezzi, anche quelli della comunicazione sociale e dell’intelligence, al fine di prevenire la guerra, frenare l’escalation della violenza bellica, attivare un cessate il fuoco, fare interrompere un conflitto armato, gestire la transizione post-bellica, (ri)costruire e far funzionare lo «Stato di diritto»4.
È cruciale studiare e comprendere perché e come l’Is combatte. La sua è una guerra di religione e di annientamento. Non va confusa o ridotta ad altre forme, da quella bolscevica a quella dei khmer rossi. Strumentalizza il potere alla religione e non viceversa. La sua pericolosità è maggiore di al-Qaeda. Giudicare la legittimità di interventi mirati spetta al legittimo governo di Baghdad che li ha richiesti; agli organi dell’Onu, in primis al Consiglio di Sicurezza, che non si è opposto (con la Cina che è sembrata apprezzare); a chi li attua; e alla comunità degli esperti di guerra e di diritto internazionale. Tuttavia costoro hanno il dovere di rispondere ai dubbi e alle critiche dei loro cittadini e dell’opinione pubblica internazionale5.
Analisti militari attestano che l’attuale soluzione armata non è efficace. Limitarsi a questo mezzo può continuare a permettere all’Is spazi di conquista e occasioni di atrocità maggiori. All’Is vanno interdetti i rifornimenti di armi, l’arruolamento e l’addestramento di nuovi combattenti, i canali di finanziamento, le infrastrutture energetiche e logistiche. Ma non basta «l’arte della guerra»: servono la politica interna, la diplomazia, la religione, l’economia (ossia un lavoro per i giovani mediorientali e non un impiego in attività criminali e mercenarie)6.
La stabilità e la sicurezza saranno garantite soltanto se i sunniti in Siria e in Iraq avranno gli stessi diritti politici, civili, sociali ed economici delle altre etnie e gruppi religiosi. Ma questa soluzione di «politica interna» sarà fattibile soltanto se le potenze regionali troveranno un accordo per interrompere lo scontro settario tra sunniti e sciiti e mettere pace tra l’Iran e le Monarchie del Golfo. E soprattutto se gli intellettuali musulmani svuoteranno il conflitto ideologico-religioso tra le scuole interpretative sunnite sul jihad.
La guerra dai tratti religiosi è estremizzata anche contro i musulmani sunniti che non sono «veramente» salafiti, inclusi i Fratelli Musulmani, Hamas, i wahabiti sauditi e i jihadisti al-Qaeda. Costoro sono apostati, secondo l’Is, perché non perseguono il Califfato globale, ma al massimo Stati nazionali governati dalla sharia. E per conquistare il consenso e l’aiuto del maggior numero di «veri musulmani», l’Is incorporerà anche le attività tipiche di al-Qaeda: attentati suicidi anche nei Paesi non a maggioranza musulmani.
Deve destare attenzione la capacità dell’Is di attirare volontari da tutto il mondo, ma pure numerose donne nei territori occupati. Esse accettano di combattere per quel jihadismo maschilista, perché l’Is proteggerebbe e promuoverebbe i diritti del proprio gruppo sunnita. Il «Califfato islamico» offre un’identità e un’appartenenza sociale — qualcosa e qualcuno per cui morire e avere il paradiso — e, insieme, un progetto politico, benché teocratico, di «Stato di diritto», di welfare e «cosmopolitismo». Sono trasmutate queste categorie della modernità occidentale, che per di più si stanno svuotando di senso, di valori e di forza motrice soprattutto in Europa.
Il ruolo delle religioni e degli intellettuali musulmani
Non lascia indifferenti il recente editoriale, «Noi in fuga dalla realtà», di E. Galli della Loggia: in particolare gli europei occidentali non sono in grado di affrontare con realismo lo scontro con il sedicente Califfato islamico, avendo evitato di riflettere su «religione, guerra e civiltà» (non semplice «cultura»)7.
La religione è un fenomeno sociale potente anche a livello globale. Ne è prova pure l’eco in Occidente dell’incontro del Papa con i giornalisti del 18 agosto; ma anche l’attenzione dei media sulla politica interna di Israele. Ma contro la guerra religiosa scatenata dall’Is, data la sua non disponibilità a cessare il fuoco e a negoziare, la risposta sbagliata è una controffensiva armata di stampo religioso, anche soltanto intra-islamico: si radicalizzerebbe l’islamismo dell’Is nelle menti e nei cuori di molti musulmani. Le armi da fuoco sono di pertinenza della politica, quelle delle religioni sono il dialogo e la formazione di coscienze rette e corrette.
Lo ha rimarcato la Dichiarazione del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso del 12 agosto. In essa si faosservare che la contestazione della restaurazione del «Califfato» «da parte della maggioranza delle istituzioni religiose e politiche musulmane non ha impedito ai jihadisti dello “Stato Islamico” di commettere e di continuare a commettere atti criminali indicibili». Ed essi vengono elencati. «Nessuna causa può giustificare tale barbarie e certamente non una religione. Si tratta di una gravissima offesa all’umanità e a Dio che è il Creatore».
Il Documento prosegue: «La situazione drammatica dei cristiani, degli Yazidi e di altre comunità religiose numericamente minoritarie in Iraq esige una presa di posizione chiara e coraggiosa da parte dei responsabili religiosi, soprattutto musulmani, delle persone impegnate nel dialogo interreligioso e di tutte le persone di buona volontà. Tutti devono unanimemente condannare senza alcuna ambiguità questi crimini e denunciare l’invocazione della religione per giustificarli. Altrimenti quale credibilità avranno le religioni, i loro seguaci e i loro leader? Quale credibilità potrebbe avere ancora il dialogo interreligioso così pazientemente perseguito negli ultimi anni?
«I leader religiosi sono inoltre chiamati a esercitare la loro influenza sui governanti per la cessazione di questi crimini, la punizione di coloro che li commettono e il ripristino dello Stato di diritto in tutto il Paese, assicurando il rientro di chi è stato cacciato. Ricordando la necessità di un’etica nella gestione delle società umane, questi stessi leader religiosi non mancheranno di sottolineare che sostenere, finanziare e armare il terrorismo è moralmente riprovevole». E il Documento rivolge un appello a tutti i musulmani perché si uniscano nel combattere questa dottrina estremista.
Segnaliamo che il Gran Muftì — la massima carica religiosa nazionale — dell’Arabia Saudita, il 9 agosto, come in precedenza il suo Re, ha dichiarato che «lo Stato Islamico eal-Qaeda sono apostati».
Anche il suo omologo egiziano è intervenuto, denunciando il Califfato islamico come minaccia per l’islam. Il Gran Muftì turco ha ribadito che le atrocità commesse in Iraq e Siria non trovano posto nella religione musulmana, ma sono una malattia della società; non sono giustificabili nell’islam e in alcuna sua setta. Sulla stessa linea si sono espressi il Segretario generale della Organizzazione della Cooperazione islamica e quello della Lega Araba.
Rimarchevole l’azione del Grande Ayatollah Alì al-Sistani, la massima autorità religiosa e morale per gli sciiti in Iraq. Egli ha crea­to i presupposti politici per le dimissioni dell’ex-premier iracheno al-Maliki; altrimenti non si sarebbe aperta la possibilità di un nuovo Governo, credibilmente nazionale perché inclusivo, ma che aspetta di essere varato entro il 10 settembre dallo sciita Haider al-Abadi, il premier incaricato. Sistani è colui che, senza prendere posizione in un partito, continua a voler ritessere la stoffa sociale, cioè interconfessionale e multietnica, dell’Iraq. Per questo il suo nome è tra quelli proposti per il Nobel della pace 2014 8.
Il Califfato islamico è un proto-Stato, benché terrorista. Domina su circa 6 milioni di abitanti, offre servizi pubblici e combatte la corruzione dei funzionari pubblici per conquistare le menti e i cuori dei suoi sudditi sunniti. Persegue obiettivi religiosi usando «in modo apocalittico» gli strumenti della politica, dell’economia e della forze armate. La comunità islamica mondiale ha il dovere di distruggere nei cuori di tutti i musulmani una concezione estremista del Corano e della tradizione islamica. A tutti spetta però il dovere di non strumentalizzare l’islam (e nessuna religione) per fini egemonici politici, economici o settari.


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