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Così Elisabetta Ballarin mi raccontò la sua storia

Creato il 23 febbraio 2012 da Stenazzi

Così Elisabetta Ballarin mi raccontò la sua storia:

Quando iniziai a occuparmi della storia delle Bestie di Satana per il mio giornale, incontrai Elisabetta Ballarin in carcere. Era appena stata condannata a 23 anni. Non faceva parte del gruppo, di riti satanici non sapeva nulla. Ma era fidanzata di Andrea Volpe, uno dei capi. E con lui e con Nicola Sapone aveva ucciso, il 24 gennaio 2004, Mariangela Pezzotta, ex fidanzata di Volpe. Elisabetta aveva 18 anni quando la arrestarono, il giorno dopo l’omicidio. Aveva conosciuto Volpe quando ne aveva 15, lui ne aveva dieci in più.
La incontrai nel carcere di Monza subito dopo la condanna di primo grado. Ora è a Brescia, la condanna è definitiva, ha già fatto sei anni. Mi scrive, siamo in contatto. Studia, si dà da fare, faticosamente si sta ricostruendo, con l’aiuto della mamma e due amiche care. Sa di dover pagare per ciò che ha fatto, lo sapeva anche quando l’incontrai in carcere. Sa anche che qualcuno, più responsabile di lei, sta pagando meno.
Ecco come andò quel giorno.

Elisabetta Ballarin ha gli occhi azzurri molto chiari, che si muovono dietro un paio di lenti finissime. Ha i capelli lunghi, oltre le spalle. I jeans, scarpe da ginnastica, una maglietta azzurra. In mano, una bottiglia grande d’acqua minerale. Elisabetta ha 20 anni. È stata condannata a 24 anni e tre mesi complessivi di carcere. Il tribunale l’ha dichiarata colpevole in primo grado di aver partecipato con il suo fidanzato di allora, Andrea Volpe, e con Nicola Sapone, all’omicidio di Mariangela Pezzotta, l’ex fidanzata di Volpe. Mariangela fu uccisa in uno chalet di Golasecca, in provincia di Varese. La casa era del papà di Elisabetta. Era il 24
gennaio 2004, Mariangela aveva 27 anni.
Fu uccisa a colpi di fucile e poi di badile; tentarono di seppellire il suo corpo in una serra poco distante.
Da quell’omicidio partirono le indagini che portarono alla scoperta della setta delle Bestie di Satana e al ritrovamento, in un bosco di castagni vicino a Somma Lombardo, dei corpi di Fabio
Tollis e Chiara Marino, uccisi e sepolti nel gennaio del 1998. Con quegli omicidi
compiuti dalle Bestie di Satana, Elisabetta non c’entra nulla: all’epoca aveva 12 anni. «Io non sapevo neanche dell’esistenza della setta», dice oggi.
Però, in quello chalet maledetto, nel 2004, lei c’era. E allora era innamorata di Andrea Volpe, uno dei capi delle Bestie di Satana. Per lui avrebbe fatto di tutto, ha fatto di tutto.
Elisabetta è di fronte a me, in una saletta per le visite nel raggio femminile del carcere di Monza. La stanza è di due metri per tre, un tavolo di formica, due sedie, le sbarre alla finestra, al di fuori si vede un muro alto, poi un altro muro ancora. La porta si chiude solo dall’esterno. Sorride gentile. L’hanno descritta come una dark lady, a me pare una ragazzina come tante altre. Non lo è. Si porta dentro, dietro, attorno, una storia agghiacciante. Mi dice: «Mi sono avvicinata al papà di Mariangela in tribunale. Prima ci eravamo guardati, ci eravamo fissati. Sono andata da lui, ho sentito di dover andare da lui. Ciò che mi ha detto non lo dirò, resta in me. È stato un momento fortissimo, terribile e fortissimo. Lui è un grande uomo ». Aggiunge: «Io sto pagando, pagherò, ed è giusto così. So anche che una giusta condanna è l’unico modo per espiare la mia colpa. Voglio pagare per ciò che ho davvero fatto, non per ciò che non ho fatto».

Così Elisabetta Ballarin mi raccontò la sua storia

I giudici hanno creduto ad Andrea Volpe: lui sostiene che, quella notte, hai bloccato la fuga di Mariangela Pezzotta, minacciandola con un fucile.
«Volpe mente. Lui dice che prima ho minacciato Mariangela e poi mi sono presentata. È assurdo. Io c’ero, è terribile, ma c’ero. Però non ho bloccato Mariangela. Lo ripeto: devo pagare per ciò che realmente ho fatto, non per ciò che altri hanno fatto. Ero lontana con la testa, strafatta di eroina e cocaina, non dormivo da 30 ore. Erano mesi che dormivamo pochissimo, vivevamo in uno stato innaturale. La mia testa era via, erano mesi che stava
altrove. Ma ero lì, purtroppo».
È difficile credere che non ti rendessi conto di ciò che stava
succedendo. Quel corpo a terra, il badile…

«Non so, anche dopo è come se volessi allontanare tutto, come se volessi rimanere in uno stato di incoscienza. Poi, ricordo che a un certo punto, in macchina, ho rovesciato la testa all’indietro, sono quasi svenuta, è stato un attimo in cui ho capito. Tutto ciò che era stato e ciò che sarebbe stato».
Andrea Volpe: tutto nasce da lì, da quell’incontro. Ha 10 anni più di te, allora tu ne avevi 15.
«L’avevo conosciuto al Nautilus, una discoteca della mia zona. Ero innamoratissima davvero,
avevo perso la testa per lui. Non sapevo della setta satanica e di tutte quelle cose lì. Certo, mi
piaceva la musica che piaceva a lui, suonavo quel metal duro. Ma questa non è una colpa, si
può essere terribili anche ascoltando Vivaldi. Lui mi affascinava, proprio perché era stravagante, pazzo. Anche gli altri che avevo conosciuto erano così. Nicola Sapone veniva ogni
tanto davanti alla mia scuola, il liceo linguistico di Busto Arsizio, mi chiedeva di conoscere delle ragazze. Maccione era un po’ folle, divertentissimo. Ma non pensavo, non pensavo… Hanno tanto scritto, poi, di Nicola Sapone che mi teneva la mano in tribunale, ma non è così. La lettura della sentenza è stata una sassata in faccia, mi sono seduta, colpita. Sapone si è avvicinato e mi ha preso la mano,l’hanno fatto anche altri».
Non ti aspettavi una condanna così dura?
«È stato un colpo terribile. Poi ho provato rabbia. Hanno creduto a tutto ciò che diceva Volpe».
Volpe ti scrive?
«Tante lettere, anche con parole dolci, ma io non gli ho risposto. Alla fine gli ho scritto chiaro di non cercare più di contattarmi. Lui ha chiesto di incontrarmi, io non volevo un colloquio, volevo un incontro all’americana. Cercavo un confronto serio, non l’ho avuto. Adesso, forse, accetterei di incontrarlo. Vorrei dirgli delle cose. Lui, mentendo, ha voluto trascinarmi con sé, tenermi incatenata per sempre. L’ha sempre voluto fare».
Si affaccia un’agente, una ragazza che potrebbe essere la sorella maggiore di Elisabetta. Lei si alza e le va incontro: «Agente, l’aspettavo». E l’altra le domanda: «T’ho visto in televisione al processo, come stai? Dai, pensa all’appello».
Futuro. Elisabetta, che parola è?
Elisabetta distoglie lo sguardo, lo fa pochissime volte.
«Se non avessi un progetto, un’idea, non riuscirei neanche ad alzarmi la mattina. Studio ogni giorno, l’anno scorso ho dato la maturità, sono iscritta a Legge, sto preparando un esame. La
parola futuro per me ora si associa allo studio, e alla famiglia. A mia mamma. Mia mamma: l’ho ritrovata, gli ultimi anni sono stati di scontro, ci scornavamo in continuazione, adesso c’è
dolcezza, tenerezza; mia mamma è qui, con me. È sempre presente. Sempre. Me lo dice: “Perché non abbiamo parlato? Perché non mi hai parlato allora?”».
Perché?
«Perché ero lontana». Un’altra parola: amore. «Amore, amore. C’è un ragazzo del reparto maschile con cui mi saluto dalla finestra». Elisabetta ride. «Scherzo. L’amore è l’ultima
cosa a cui penso qui dentro. Sono tante le cose che mi mancano, l’amore non è la prima. E, comunque, ho l’amore della mia famiglia, delle mie amiche di sempre, Silvia, Nicole:
mi scrivono, mi vengono a trovare anche se a volte saltano, perché hanno il ragazzo, lo studio.
La vita delle ragazze normali, delle ragazze fuori di qui. Poi ricevo tante lettere da sconosciuti,
ragazzi in carcere. Io cerco rapporti fuori.Devo pensare a fuori di qui».
I rapporti in cella?
«Sono con una ragazza boliviana di 23 anni. Prima ero stata sempre con donne più adulte. Cercavo la mamma. Come si sta in carcere? Male. Però Monza è un carcere con tantissima umanità. So che andrò altrove, prima o poi al polo universitario di Prato, dove finisce l’1 per cento dei detenuti, quelli che fanno l’università. Pochissimi, vero? Ma l’umanità che ho trovato qui credo che non la troverò più. Il carcere è difficile. Ti giudicano, di te si sa tutto. Tutte ascoltano tutto. Mi hanno capito, credo. Non ho mai avuto nessun problema».
Com’è la tua giornata?
«Studio, lavoro in biblioteca due ore. Ascolto musica: Vasco, qualsiasi cosa. Anche il metal che ho sempre amato. Leggo romanzi, adesso Patricia Cornwell. Ho sempre con me Il gabbiano
Jonathan Livingston. Ce l’ho da sempre. Cerco di evitare i pasti della prigione, mi compro le mie cose. Ho diminuito il fumo, solo dieci sigarette ora, ma, quando scrivo, devo fumare, non riesco a non farlo. E poi penso».
A che cosa?
«Sto viaggiando dentro di me. Sembra assurdo ma sto costruendo la mia personalità qui dentro, in carcere. È qui che sto nascendo come persona. Sto scoprendo cose di me che prima
non avevo mai capito».
Un’altra parola: felicità.
Elisabetta sorride, china la testa. «Felicità. In questo periodo le parole sono altre. Però, stamattina ho guardato oltre le sbarre, arriva la primavera. Cantavo Quando calienta el sol».
Elisabetta, lo sai che c’è un’altra domanda.
«Lo so».
Quanto pensi a Mariangela?
«Tanto, sempre. È un pensiero che non combatto, che lascio mi assalga. Sconterò la mia pena, il pensiero resterà sempre».

Usciamo dalla sala colloqui. Elisabetta saluta gli agenti, torna in cella, se ne va con la bottiglia in mano. Andandomene sento il rumore della prigione, delle porte che si chiudono pesanti.


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