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Così i piccioni colorati diventano opere d'arte

Creato il 03 settembre 2012 da Roberto Milani
 Pierluigi Panza per Corriere.it (www.corriere.it)
Così i piccioni colorati diventano opere d'arte
Così i piccioni colorati diventano opere d'arte
(e invadono Venezia)
Rossi, blu, verdi: lo svizzero Charrière li «tinge» con il cibo
VENEZIA - Vituperati dai restauratori poiché il loro guano rovina i monumenti, perseguitati dai sovrintendenti con dissuasori ad aghi e spilli sui cornicioni, allontanati dalle ville signorili tramite filo elettrificato, sterminati dai sindaci con mangime anti-riproduttivo, i piccioni sono sopravvissuti a tutto e hanno finalmente trovato qualcuno che a loro vuole «bene»: Venezia e la Biennale.
Per la Biennale, i piccioni, sono sempre un'opera d'arte! Vivi, morti, colorati, impagliati... Va da sé che, dalle tavole dell'Aldrovandi all'Ottocento, la pittura ornitologica ha annoverato fortunate stagioni artistiche. Ma che proprio il piccione fosse il centro, il fulcro, il totem, diciamo, della religione espressiva questo è davvero un volo pindarico dell'arte contemporanea.
L'anno scorso, alla Biennale d'arte, i piccioni impagliati di Maurizio Cattelan appesi sopra i quadri di Tintoretto divennero il logo della rassegna. Tornati quei pennuti impagliati nei laboratori tassodermici spagnoli da dove erano venuti, quest'anno, alla 13ma Biennale d'architettura l'artisticità contemporanea ha anche puntato sulla trasformazione genetica dei piccioni vivi. Qualcuno dirà: l'ultima follia di Venezia. Ma non è niente di cruento e la spiegazione offerta è quasi toccante.
Biennale: piccioni colorati diventano opere d'arte

Julian Charrière, artista nato a Morges, in Svizzera, nel 1987, che ha studiato e vive a Berlino e che qui collabora con Julius von Bismarck al progetto di osservazione socio-urbanistica proposto dallo studio Vogt Landscape Architects (esposto nella mostra «Common Ground» curata da Chipperfield), ha realizzato «Pigeon safari is open in Venice». Attraverso una gabbia posizionata settimane fa sopra alcuni tetti e dotata di un particolare sistema di erogazione di acqua e cibo, Charrière riesce a far cambiare, «senza alcun pericolo per l'animale», assicura, la pigmentazione dei piccioni, il cui piumaggio assume colorazioni da pappagallo esotico per alcuni mesi. «Si usa questo sistema per studiare le migrazioni degli uccelli», assicura. E così, in giro per Venezia, ci sono ora una sessantina (la stima non può che essere approssimativa: non c'è certezza del numero di piccioni entrati nella gabbietta) di piccioni color blu cobalto, verde smeraldo e persino rosso-tiziano. Mentre alcuni delle prime due pigmentazioni sono stanziali anche in piazza San Marco, dove becchettano con i confratelli e si posano serenamente sull'intradosso delle finestrature del Museo Correr, quello rosso è stato per ora intercettato solo su un tetto in calle delle Razze. Il safari è dunque aperto, per la gioia ingenua dei bambini che ieri rincorrevano il piccione blu per vederlo spiccare un breve volo verso le Procuratorie o la Biblioteca Marciana. Spesso con la mamma che diceva: «Non toccarlo, è malato». Ma è già chiaro che nella classifica immaginaria del birdwatching lagunare non è il piccione blu cobalto a contare, ma l'avvistamento di quello rosso, cosa rarissima.
Provocazioni? Charrière dà una spiegazione romantica. «I piccioni fanno parte del nostro landscape urbano e, poiché si posano a terra, anche del nostro "Common Ground". Però li combattiamo, come se fossero una massa irriconoscibile di animali. Invece ciascuno di essi ha una sua identità; e se la si riesce a manifestare con il colore la si rende riconoscibile. Così il piccione viene meglio accettato». A Copenaghen, dove ha proposto qualcosa di simile («Some pigeons are more equal than others»), gli ecologisti non l'hanno presa molto bene.
Non è che la Biennale abbia visto solo il trionfo del piccione nella sua storia. A quella del 1962, durante l'inaugurazione del Presidente della Repubblica Antonio Segni, un artista liberò dei topi d'acqua che presero a correre tra la folla, generando il panico. Al Padiglione Argentino della Biennale del 1970 Luis Fernando Benedit realizzò un microzoo con l'opera «Le grandi api impazzite»: 4 mila api in due grandi parallelepipedi di plexiglass comunicanti fra loro. Più mosche, grilli, chiocciole e pesciolini vivi. In una performance della Biennale del '72, il gruppo belga Mass Moving liberò 10 mila farfalle. Peccato che fossero pieris brassicae , ovvero cavolaie: deponevano larve che divorano le foglie. E nel 2011, oltre ai piccioni di Cattelan, il belga Koen Vanmechelen aveva esposto galline strizzate a Murano.
L'arte, nei secoli, ha avuto l'ambizione sia di imitare che di modificare la Natura. Naturale che anche le trasformazioni biologiche entrino nell'arte e le sue opere si posino sul «Common Ground» di piazza San Marco, insieme ai piccioni-nature e a una «tortorella passerina terrestre» avvistata dall'Associazione ornitologica veneziana nelle scorse settimane. È un'immigrata clandestina poiché è originaria dell'America Centrale e dei Caraibi e anche un po' degenerata: trascorre la «maggior parte del suo tempo camminando sul terreno», non come un uccello, ma come un mammifero.
Pierluigi Panza
www.corriere.it

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