Leggere le cronache dello sciopero generale è come salire sulla macchina del tempo e ritrovarsi di trent’anni indietro. Proteste, naturalmente finte e mediaticamente organizzate per i disagi inflitti a un’improbabile maggioranza silenziosa, sottili disquisizioni sulle frange violente e insomma tutto l’armamentario morale e intellettuale che cominciò a imporsi col craxismo. Il mondo è radicalmente cambiato, ma non il piccolo mondo del potere e dell’informazione italiano: quello rimane attaccato a questi cliché come l’ascidia che perde il sistema nervoso centrale dopo aver trovato lo scoglio a cui aggrapparsi.
Inutile dire che il groppone al quale si attacca è il nostro e ce lo meritiamo. Ci prenderanno per noia nonostante non manchino gli elementi paradossali tipo lo sciopero generale non prima, ma dopo l’approvazione del job act e tutto ciò che lo ha preceduto, a ” babbo morto” come ha detto qualcuno, segno di una difficoltà della Cgil a rompere i propri riferimenti politici tale da creare una corposa incertezza riguardo allo sciopero stesso: se cioè sia stato voluto dal vertice della Cgil, colta di sorpresa dall’accelerazione renziana, per fare da spalla a gruppi politici tradizionali o sia stato in qualche modo reso necessario da una base sempre più delusa e inquieta? Il che ormai si traduce nell’incapacità di riconoscere il nemico e con esso la realtà stessa.
Ma quest’ultima è facilmente decifrabile, se solo si supera il chiacchiericcio anni ’80 con cui ci stordiscono i dagherrotipi viventi dell’informazione e si costruisce attorno ad un’antinomia: la Cgil non sembra aver indetto lo sciopero generale per ridare forza al lavoro, già svenduto da molti anni e i lavoratori non sembrano aver partecipato per riconfermare la legittimazione del sindacato. E’ come se tra le due cose ci fosse uno scollamento e ormai un’eterogenesi dei fini. Così non va, tanto per riprendere lo slogan bonario e generico costruito per l’occasione.
Del resto , tanto per citare un nome emblematico, com’è possibile che uno dei più infaticabili smantellatori delle conquiste e della dignità del lavoro, sia proprio l’ex dirigente della Cgil, Ichino? Uno che come parecchi altri ha costruito la propria carriera correndo scompostamente sulla cinghia di trasmissione tra sindacato e i derivati del Pci. Ci sarebbe da chiedersi allora come mai tante critiche di sapore stantio cadano addosso alla Cgil da parte del circolo Pickwick dell’opinionismo liberista, così come degli inqualificabili figuri del berlusconismo culturalmente straccione, visto che ormai il lavoro è stato messo all’angolo con la fattiva collaborazione del sindacato? Proprio perché s’intuisce che la situazione sta sfuggendo di mano, perché il controllo delle tradizionali strutture intermedie viene visibilmente meno assieme alla loro credibilità. E perché si vuole definitivamente impedire che la percezione della crisi e del declino civile esca fuori dalla dimensione individuale e si riconosca per quello che è, vale a dire come conflitto sociale e processo collettivo.
Se questo accadesse il sindacalismo – e già lo si vede – prenderebbe strade, organizzazioni e dirigenze diverse rispetto a quelle fin qui praticate e assai meno condizionabili e condizionate. Le critiche che cadono come le foglie morte sullo sciopero generale tardivo sono dunque funzionali a dare l’impressione che il sindacato esiste, vive e lotta assieme ai lavoratori come accadeva molti anni fa, con la stessa efficacia e virulenza. Così che il conflitto sociale stesso continui ad esistere all’interno della governance che lo produce.