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Così vengono sfruttati i Sikh nelle campagne laziali

Creato il 29 novembre 2010 da Milleorienti

MilleOrienti si è occupato più volte dei Sikh emigrati dalle campagne del Panjab a quelle italiane (vedi i post contenuti nella Categoria “Sikh in India e in Occidente”). Oggi preferisco lasciare la parola a un eloquente articolo  uscito sul quotidiano il Manifesto il 28 novembre 2010 a firma di Loredana Di Cesare e intitolato Sikh di casa nostra. Lo riporta anche il sito di Diritti globali.

Così vengono sfruttati i Sikh nelle campagne laziali

Sikh al lavoro nelle campagne laziali. (La foto non si riferisce alle persone citate nell'articolo)

SABAUDIA (Latina). Braccia instancabili, mani e volti segnati dal sole e dal lavoro nei campi che inizia all’alba e termina al tramonto. Vale la pena venire fin qui per vedere come lavora un esercito di fantasmi che vive al limite della sopravvivenza con paghe da fame, in condizioni disumane di sfruttamento e che però riesce a mantenere lo stesso un’incredibile dignità. A guardarli vengono in mente i blues intonati dalle comunità di schiavi afroamericani nelle piantagioni di cotone del sud degli Stati uniti. Invece tutto avviene nella campagne di Sabaudia, in provincia di Latina, un centinaio di chilometri a sud di Roma dove da anni risiede un folta comunità di sikh originari del Punjab, una regione a nord ovest dell’India che hanno lasciato negli anni ’80 per sfuggire alla crisi economica.
Sono settemila (ma la Cgil ne stima addirittura 12 mila) costretti a lavorare dalle dieci alle quindici ore al giorno durante le quali raccolgono frutta, verdura e ortaggi distribuiti nei nostri mercati. Le regole sono precise e non discutibili: un’ora per mangiare e soltanto due pause da dieci minuti per bere. Il più fortunato guadagna quattro euro l’ora, ma la maggior parte di loro si accontenta di tre euro e, dove ci sono casi di caporalato, c’è anche chi viene pagato ottanta centesimi. Paghe da schiavi. E infatti il datore di lavoro, italiano, pretende di essere chiamato «padrone», esigendo per di più che i sikh facciano tre passi indietro e chinino la testa in segno di rispetto nei suoi confronti. Vietato mancare un solo giorno di lavoro, anche in caso di malattia, altrimenti salta la paga dell’interno mese. «Una situazione pesantissima, ma non possiamo denunciare il nostro datore di lavoro perché la maggior parte di noi è clandestina», raccontano alcuni. Ma anche chi è in regola col permesso di soggiorno non se la passa molto bene giacché i proprietari delle aziende si limitano a pagare al massimo una settimana di contributi. Ribellarsi, anche per motivi culturali, è impossibile e se qualcuno ci prova nei suoi confronti scattano ritorsioni come la minaccia di licenziamento o, peggio, per gli irregolari, la denuncia alla polizia.Così vengono sfruttati i Sikh nelle campagne laziali

Al villaggio Bella Farnia vivono molti dei sikh della zona. I profumi delle spezie segnano il confine netto all’interno del residence, abitato per metà da immigrati e per metà da italiani. Alcuni bambini giocano a calcio nella piazza dove su un lato sono incolonnate decine di biciclette, unico mezzo a disposizione con il quale raggiungono ogni mattina i luoghi di lavoro. Hardeep Singh abita qui. Sorseggia un succo di mango e non perde tempo a spiegare che la sua religione vieta di bere alcolici, mangiare carne e pesce. In casa la televisione è accesa su Sangat channel, un canale via satellite che trasmette le celebrazioni al Tempio d’oro, luogo sacro del sikhismo. Lui è in Italia da 12 anni, da quasi quattro a Sabaudia. Ha iniziato a lavorare in fabbrica in Lombardia con un regolare contratto e una buona paga. In seguito è stato chiamato dai suoi connazionali per organizzare il tempio della comunità in provincia di Latina. I vantaggi di quando era operaio ormai sono solo un ricordo: ha lavorato la prima settimana di prova in un’azienda agricola senza prendere un centesimo e per mesi con la promessa di un contratto che non arriva mai. Ma non è solo questo. Hardeep infatti non è contento di come il padrone lo tratta: «Mi chiama Bin Laden per via della barba. Io gli spiego che noi sikh non siamo musulmani, ma non serve a niente, continua a chiamarmi così per offendermi».

È un sikh ortodosso e ciò che lo distingue dagli altri sono cinque simboli: Kesh (capelli e barba lunghi), Kanga (un pettine di legno), Kara (un braccialetto d’argento), Kachera (una sottoveste) e Kirpam (un pugnale). Gli è stato chiesto di liberarsene ma per Hardeep «un sikh senza questi simboli non è nessuno».
A pochi chilometri dal villaggio c’è il Gurudwara, il luogo di culto. Una sala grande, per la preghiera nella quale si trova il volume della Sacra scrittura che tutti posso leggere. È sempre aperto e ognuno indipendentemente da casta, credo, cultura sesso o nazionalità, può visitarlo. Si entra a piedi scalzi e con il capo coperto. Una volta dentro i fedeli si avvicinano al libro sacro, si inchinano per poi prendere posto ai lati dell’altare. Durante le preghiere viene distribuito il Karah -Prashad, un budino di semolino, fatto di burro, farina, zucchero e acqua preparato nella cucina della comunità, Langar, posta vicino al tempio. «La cucina è uno degli aspetti più importanti di un tempio sikh perché garantisce cibo a tutti, devoti, pellegrini e ospiti. Simboleggia uguaglianza e fraternità tra i popoli» spiega Marco Omizzolo, dottorando dell’Università di Firenze, che per mesi ha vissuto con i sikh. «È qui che il ricco e il povero, il colto e l’ignorante condividono lo stesso cibo seduti insieme lungo la stessa fila».

Così vengono sfruttati i Sikh nelle campagne laziali
Il Tempio d’Oro di Amritsar in Panjab, cuore del Sikhismo

I sikh di Sabaudia sono consapevoli di essere sfruttati dai loro datori di lavoro ma superano questa ingiustizia spiegando che dal giorno della fondazione della loro fede, è stato loro insegnato ad affrontare l’ingiustizia sociale come parte integrante dell’ esperienza spirituale e del loro progresso. Inoltre uno dei precetti più importanti del Sikhismo sta nella convinzione che la gloria di Dio possa raggiungersi solo attraverso la totale dedizione al lavoro. Sono principi che chiariscono quanto la loro indole pacifica sia comoda al nostro sistema economico e politico che li sfrutta e allo stesso tempo li discrimina e come la loro incapacità di organizzarsi li renda soggetti alle forme più spietate di schiavitù.
Non mancano nemmeno episodi di intolleranza e violenza, tutti passati sotto silenzio. Balihar Singh, bracciante a nero nell’agricoltura con una paga di tre euro l’ora, racconta che alcuni suoi connazionali mentre tornavano a casa a bordo delle loro biciclette sono stati travolti da una macchina che li ha fatti cadere nel fossato. Altri invece sono stati derubati e picchiati dopo che avevano ritirato la paga. Non hanno il coraggio di denunciare questi fatti perché sono convinti che l’intervento della polizia non fermerebbe le aggressioni e chi ha provato a farlo non è stato neanche creduto.

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Bandiera con il simbolo del Sikhismo

Eppure nonostante questo non solo resistono, ma in molti pensano anche di voler restare a vivere in Italia.
Una scelta quasi obbligata, perché ormai i loro figli sono iscritti nelle scuole della zona. E’ la seconda generazione, piccoli sikh che parlano bene l’italiano, cresceranno in Italia e saranno perfettamente integrati. E un giorno magari non accetteranno più di essere sfruttati. Ma questo è il futuro. Adesso per Balihar Singh s’è fatto tardi e va a casa. Domani il «padrone» lo aspetta all’alba.


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