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Cosimo Forina, dalla droga alle inchieste sulle ecomafie

Creato il 14 novembre 2012 da Tipitosti @cinziaficco1

Artigiano www.albumlara.it , per venti anni volontario in un Centro di prima accoglienza accanto ai tossicodipendenti, dal 2003 giornalista pubblicista. Autodidatta.

Parlo di Cosimo Forina, nato nel ’58 a Canosa di Puglia e residente  a Spinazzola (Bat), che scrive per la Gazzetta del Mezzogiorno – edizione del Nord Barese – come collaboratore da Spinazzola e nove anni fa ha pubblicato “Antonio Storia di un Uomo” con la “Dellisanti Editore”.

Una vita, la sua, spesa per il prossimo e alla ricerca della verità. Tante volte ha ricevuto minacce, aggressioni. Ma lui non molla. Continua ad occuparsi oltreché di cronaca locale, di ambiente, gestione dei rifiuti e fenomeni di criminalità, legati alle ecomafie. Il 21 marzo 2009 ha ricevuto il Premio “Rosario Livatino” all’impegno sociale.  Fare l’artigiano, vedremo da questa intervista, non gli basta.

 

Cosimo Forina, dalla droga alle inchieste sulle ecomafie
Cosimo, come hai cominciato ad occuparti di tossicodipendenza? 

Nel 1986, aiutando i ragazzi ad entrare in Comunità. In particolare nella Comunità Incontro di Don Pierino Gelmini. Ero un volontario. Avevo aperto un dialogo con i ragazzi in piazza, li accompagnavo a fare i colloqui presso la sede della Comunità Incontro di Andria e presso la struttura sanitaria (Got poi trasformati in Sert). Una volta ottenuta la convenzione tra Asl e Comunità, li portavo al centro, che li avrebbe ospitati.

Avevi una certa preparazione o hai improvvisato?

Sono andato ad istinto. Mi sono lasciato guidare dall’esperienza, e, soprattutto, ho condiviso il disagio dei ragazzi. Ho cercato di lavorare molto su di loro, convincendoli a lasciare la droga, senza il supporto di alcun farmaco. Ho fatto tutto, basandomi solo su un principio: la fede nell’uomo, nonostante tutto. Il primo, tra i tanti ragazzi incontrati, è stato Antonio Cicorella, di cui racconto nel mio libro. Con lui, dopo il suo cammino in Comunità, iniziato nel 1987 e conclusosi tre anni dopo, ho fondato a Spinazzola il Centro di prima accoglienza “Casa Michele”. Unico nel suo genere. Venivano accolti ragazzi provenienti dalla strada e ospitati sino all’ingresso in Comunità.

Antonio mi ha lasciato un segno profondo.

Perché?

Era consapevole di essere in Aids conclamato ed ha dedicato sino alla sua morte, avvenuta il 27 settembre 1995 a Casa Michele, tutto se stesso, aiutando altri ragazzi ad entrare in Comunità. Nel nostro centro – una casa in abbandono,  un “ex Lazzaretto” alla periferia della città, ottenuto in locazione dal Comune di Spinazzola – in due anni e mezzo di attività, sono stati ospitati 110 ragazzi, che hanno trovato in Antonio il loro riferimento. In quegli anni quasi il 70 per cento dei ragazzi ospiti era sieropositivo ed i farmaci per contrastare l’Hiv non erano ancora efficaci. Tanti, purtroppo, non sono sopravvissuti. Un flagello silenzioso, che ha mietuto vittime più della stessa eroina. Chi, invece, ha concluso il suo cammino si è reinserito a pieno titolo nella società. L’esempio di Antonio ha profondamente segnato quanti sono stati a contatto con lui. Alcuni dei ragazzi, che sono poi riusciti a crearsi una famiglia, hanno scelto di chiamare il loro primo figlio proprio Antonio. In segno di gratitudine verso chi ha generato in loro la speranza del riscatto.

Cosa ti ha lasciato quella esperienza?

La certezza che chiunque, anche da emarginato, se lo vuole, può ritrovare la forza del suo recupero, diventando, come nel caso di Antonio, protagonista della sua vita e di quella degli altri. La droga la si può sconfiggere e ritornare ad essere degli uomini liberi. Anche affrontando la morte.

Cosimo Forina, dalla droga alle inchieste sulle ecomafie
C’è qualche altra storia che porti con tè?

Oltre all’esempio di Antonio, che considero un maestro di vita, un diacono non consacrato per la sua testimonianza anche di fede. Ogni ragazzo che ho conosciuto ha lasciato in me parte del suo vissuto. Ed è oggi questo il bagaglio che completa la mia esperienza.

Quali sono state le difficoltà maggiori?

La diffidenza iniziale delle persone e delle istituzioni. Chi si occupava di tossicodipendenti in una piccola realtà veniva visto con sospetto. Aprire il centro è stata una provocazione. Tant’è che come presidente dell’associazione, dopo che si è tentato di far chiudere “Casa Michele”, ho anche dovuto subire un processo, in cui sono stato assolto. Avevamo una scelta, chiudere e abbandonare i ragazzi al loro destino o lottare. Abbiamo scelto la seconda soluzione.

Da chi hai avuto supporto?

E’ arrivato dalle persone, che hanno iniziato a credere in quello che stavamo facendo. E la casa in abbandono, da ex luogo di disperazione e morte, all’improvviso si è trasformata in un luogo caldo ed accogliente, di speranze e vita.

Chi ti ha deluso?

Chi non ha compreso quello che stava succedendo tra quelle mura. L’atto di amore di un Uomo, Antonio, che, consapevole di dover morire, ha abbracciato il destino degli altri, portandolo sino ai confini della speranza, sino ai confini della vita.

Poi perché hai chiuso con questa esperienza? 

Dopo la morte di Antonio e di altri ragazzi non ho avuto la forza di proseguire. Per anni ho sperimentato come vincere la droga, tentando di dare dignità alla vita. Non sono stato capace di affrontare la morte di quei ragazzi che, spesso abbandonati da tutti nei reparti infettivi, avevano solo me come ultimo riferimento per le loro pur piccole necessità.

Perché ci si droga? Dopo venti anni ti sarai fatto un’idea!

Non è la droga che rovina la persona, ma una vita rovinata, che approda alla sostanza. Le motivazioni possono essere tante. Quando queste, in personalità fragili, vengono delegate ad una sostanza, significa che c’è qualcosa che non va. E la droga arriva come acqua sul bagnato.  La droga, secondo tanti, è inizialmente un grande piacere. Ma il suo prezzo è troppo alto, che distrugge tutto: affetti, sentimenti, legami, amicizie, amore. Per questo non vale la pena sperimentare nessuna droga. Chi fa uso di droghe cosiddette leggere non è detto che finisca con usare quelle pesanti. Ma chi è approdato a queste, è partito proprio da quelle leggere, magari semplicemente da uno spinello.

Chi fa più facilmente ricorso alla droga?

Nel passato, quando a prevalere era chi faceva uso di eroina, facilmente individuabile, a prevalere erano gli uomini. Ma erano tante anche le ragazze, che riuscivano a procurarsi la sostanza  con la prostituzione. Oggi sembra non esserci questa distinzione. Le droghe, specie tra i giovani e giovanissimi, sono diventate di uso comune. Dall’eroina si è passati alla cocaina o ad altre sostanze, alcool, e nessuno più accetta apertamente la propria condizione di tossicodipendente. Invece, non è così. La dipendenza è diventata ancora più subdola ed a essere rovinato è un numero sempre più crescente di ragazzi. Quando parlo di  dipendenze parlo anche di quelle dal gioco e da altre forme di patologia.

Sono più i ragazzi provenienti da famiglie benestanti?

Non c’è distinzione. Un tempo si pensava che drogarsi fosse legato al ceto abbiente. Poi l’infezione si è diffusa in ogni parte della società, colpendo tutti, dai figli degli operai a quelli dei notabili, senza distinzione di sorte e la dipendenza si è diffusa in tutte le sue forme.

Qual è la giusta terapia?

Dare tempo, dedizione, esempio e amore. Attraverso saldi principi, insegnando a riempire di senso la propria vita. A chi ha smarrito il sentiero dell’esistenza bisogna insegnare che non si può avere tutto e subito. E che è sbagliato concepire il divertimento come un unico assoluto. La vita è anche sacrificio, dolore, pianto, capacità di affrontare il cammino in ogni sua parte.

La via della legalizzazione potrebbe essere quella giusta?

No. Non credo che liberalizzare le droghe, sia leggere che pesanti, rappresenti la soluzione. Come già detto, chi cerca la sostanza è chi delega ad altri il desiderio del proprio benessere. Sconfiggere la droga significa dare senso alla vita. Per combattere la cultura dello sballo è importante affermare che si può condividere gioia e divertimento con gli altri, anche restando lucidi e se stessi. Accettando i propri limiti, senza rinunciare a nuove ambizioni.

Cosimo, dal 2003, sei anche un giornalista. Uno con la schiena dritta. Che per il suo lavoro ha avuto tante minacce. E’ così? Su cosa sei impegnato in questo momento?

Avere la schiena dritta significa semplicemente mantenere la propria coerenza, non accettando compromessi. Quindi fare semplicemente il proprio dovere.  Mi occupo e mi sono occupato di ambiente, ciclo dei rifiuti, energie alternative, in particolare del flagello del territorio con le torri eoliche e i pannelli fotovoltaici e dell’influenza della mafia in questi settori, ma anche del connubio tra politica e affari.  Non ti nascondo che non è facile fare questo mestiere quando c’è gente che non trova il coraggio di reagire, magari verificando in modo diretto le informazioni. Spesso si preferisce girare la testa dall’altra parte, pensando che quello che avviene, non ci appartenga.

Da chi hai avuto maggiore solidarietà?

Da pochissimi. Quando si tenta di delegittimare un giornalista per quello che scrive gli si fa terra bruciata intorno. Poi si passa a cercare di renderlo non credibile, magari deridendolo. Non ti fanno mancare niente. Mi arrivano valanghe di lettere anonime, querele di sbarramento e qualche aggressione. E la solidarietà, tranne quella di rito, nasce e muore con la stessa velocità della vita delle farfalle.

Come reagiscono i tuoi colleghi pugliesi alle tue inchieste?

Credo che diversi abbiano approfondito gli argomenti da me trattati. Con tutti ho ottimi rapporti, dando il massimo della disponibilità nello scambio delle informazioni. Non ho mai rincorso lo scoop. Ho solo raccontato quello che mi capitava di vedere, cercando di trovare riscontro nella lettura anche di centinaia di documenti. Questo, per chi mi conosce, è cosa nota.

Hai una vita piena. Fai anche l’artigiano!

Svolgo la mia attività dal 1986. I miei manufatti sono realizzati con una antica ed esclusiva tecnica artigianale. Utilizzo elementi naturali, incastonati nella pelle, tinteggiata a mano. Mi ispiro solo alla Natura. Produco Set da scrivania, agende, rubriche, complementi per la scrittura, diari, album fotografici, utilizzando come elemento decorativo vere foglie di quercia, spighe di grano, foglie e ramoscelli di ulivo, elementi riconducibili al Parco Nazionale dell’Alta Murgia. La mia terra. 

Cosimo Forina, dalla droga alle inchieste sulle ecomafie

Ma dove trovi il tempo per fare tante attività?

Qualche notte in bianco per scrivere non è poi spesa così male.

Ma non sarebbe meglio fare solo l’artigiano?

Me lo chiedo e chiedono spesso. Ma vivere pienamente non significa solo respirare. Scrivere e raccontare il luogo in cui si vive, in tutte le sfaccettature, è una gran brutta e, nello stesso tempo,  bella malattia. Credo inguaribile. Come l’emozione che viene dal risultato della propria capacità manuale, unita alla tecnica acquisita in anni di esperienza. Tutto sommato a pensarci bene i miei due lavori si equivalgono. Come artigiano, manipolo la materia. Come giornalista, uso le parole. Tutti e due i mestieri riservano particolari soddisfazioni.

E la tua vita privata?

E’ appagata dalle persone a me care e dal loro sorriso.

Ma ne vale davvero la pena?

Quando sono in piena crisi, spesso, mi ripeto che no, forse non vale la pena. Ma poi ti guardi intorno e ti accorgi che quello che hai raccontato è servito a fare da arginare a molto, più di quello che ti aspettavi. Non si può rimanere con le mani in mano di fronte ai predoni del territorio, della salute della gente, del bene comune. Ed allora ti ripeti che sì, è valsa la pena scrivere tutto, senza tralasciare nulla, facendo rigorosamente i nomi ed i cognomi.

Ti senti un tipo tosto?

Credo proprio di no. Mi ritengo una persona normale, che tenta di fare solo la sua parte sino in fondo. Da una piccola città non puoi permetterti di romanzare la cronaca. Devi raccontarla e basta. La soddisfazione, se così posso dire, è quella di sapere che da una tua inchiesta giornalistica è poi scaturita una indagine giudiziaria o qualche interrogazione parlamentare bipartisan. Ma per questo non ti chiamo nei talk show  televisivi come avviene per  noti giornalisti strapagati, che romanzano gli atti dei Tribunali. Per i piccoli artigiani della parola come me il salario non cambia: 6,80euro a pezzo lordi, minacce e querele, tutto incluso.

                                                                                                                    Cinzia Ficco

 


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