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Cosmopolis

Creato il 29 maggio 2012 da Veripaccheri

Di NICKOFTIME 
Cosmopolis
Una visione globale. In una quotidianità virtuale e frammentata dai flussi informativi il compito più difficile è quello di mettere insieme le cose, di farle convivere in un unico quadro. E’ quello che tenta di fare David Cronenberg adattando per il cinema l’omonimo libro di Don de Lillo, uno dei numi tutelari della letteratura americana contemporanea, capace di far gridare al miracolo anche quando decide di soffermarsi sulla cronaca dettagliata di una partita di baseball diluita per almeno una cinquantina di pagine, quelle di apertura, solitamente bisognose di una concentrazione supplementare, anche in presenza di una prosa meno complessa di quella utilizzata dallo scrittore del Bronx. Questo per dire che non bisogna farsi illusioni sulla versione cinematografica del regista canadese che, alla stregua della sua fonte, non fa niente per venire incontro allo spettatore. “Cosmopolis” infatti dichiara fin da subito la sua intransigenza con sequenze che non lasciano spazio ad alcun ripensamento, collocandosi laddove devono essere, ovvero negli interni ovattati e tecnologici della limousine sulla quale si consuma la giornata di Eric Packer (un monocorde Robert Pattinson), genio della finanza intento a fronteggiare le oscillazioni del mercato e con un taglio di capelli che deve essere aggiustato, anche a costo di sfidare la congestione stradale di New York paralizzata dalla visita del presidente degli Stati Uniti ed invasa da migliaia di manifestanti che protestano contro le iniquità del sistema. Nei sedili di quella macchina e nell’arco di un intera giornata il film ci racconta di un mondo che cade a pezzi insieme ai moloch che l’hanno costruito. Nell’abitacolo diventato appartamento si succedono gli interlocutori di Eric, dal medico che gli controlla la prostata, all’amante che si preoccupa di fargli acquistare un quadro di Rothko, alla consulente in tuta da jogging che lo eccita stringendo in mezzo alle gambe una bottiglia d’acqua – "tensione sessuale" gli dice Eric, mentre il dottore gli tiene un dito nel retto per effettuare la visita – e poi ancora hacker e collaboratori, fino all’incontro con l’individuo che sta cercando di ammazzarlo.
Se la struttura della trama non lascia spazio ad alcuna concessione in termini di spettacolo e fruizione, la situazione non migliora quando si tratta di dare seguito alla vicenda utilizzando la parola che nella versione cinematografica risulta preminente quasi come nelle pagine del libro. Ed è proprio lì, nei dialoghi e nelle sentenze che il film mette in bocca ai suoi personaggi, che si giocano le fortune di un'opera astratta e speculativa, costruita sulla visione di un mondo dominato da numeri e dati ricavati dallo schermo di un computer o shakerati in maniera semiseria dalle conversazioni che hanno luogo lungo il corso dell’interminabile giornata. Cronenberg immagina la sua opera come una sorta di grande fratello, facendo diventare i sedili della macchina il confessionale nel quale è possibile enunciare la propria verità. Una camera caritatis dove l’abilità affabulatoria del protagonista e dei suoi sodali si sforza senza successo di interpretare i segni di un esistenza sfuggente ed in continua trasformazione, mentre un’umanità senza anima – sguardi catatonici e voci sussurrate ricordano “Crash” – diventa il terminale di un atto di morte che ha il diagramma impazzito delle proiezioni economiche, come quelle che Eric cerca di interpretare per valutare le conseguenze di una scommessa che potrebbe ridurlo sul lastrico. Se le intenzioni restituiscono il regista alle atmosfere stranianti e grottesche ed allo stile cerebrale che gli è riconosciuto, allo stesso tempo “Cosmopolis” non riesce a replicare in termini visuali l’abilità che sarebbe necessaria a tracimare nelle immagini la verbosità di cui il film si fa portavoce, con il conseguente scollamento tra quello che vediamo e quello che ascoltiamo. Omaggiando il cinema contemporaneo che predilige protagonisti senza passato ed emotivamente criptici,  “Cosmopolis” ci offre una tipologia umana che nel rappresentare il malessere esistenziale dell’uomo moderno rischia nella sua rarefazione di diventare una forma stereotipata e priva di interesse. Ancorato alla contemporaneità per i riferimenti alla crisi del sistema capitalistico e per i rimandi a possibili scenari di disubbidienza violenta, il film perde progressivamente il suo fascino trasmettendo all'opera l’apatia del suo protagonista. Alla fine si arriva stanchi e con la voglia di prendere una boccata d’aria. Come se in quella limousine ci fossimo stati noi.

 


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