Costa Concordia, quanto ci costa l’erezione?

Creato il 15 settembre 2013 da Albertocapece

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Forse per promuovere la nostra farsa nazionale a tragedia, sia pure ridicola, è diventato perfino banale assumere il naufragio della Costa al Giglio come caso paradigmatico e allegoria della catastrofe italiana: un capitano incapace, forse ubriaco e impasticcato, certamente codardo e irresponsabile, una ciurma inadeguata, padroni rapaci tanto da essere indifferenti del destino dei naviganti, autorità di controllo assenti, o addomesticate, amministratori sul territorio, anche quello marino, persi in piccoli intrighi di campanile, autorità nazionali distratte quando non complici.

Domani, condizioni meteo permettendo (l’unica cosa imprevedibile e “naturale” in un contesto di eventi probabili e attribuibili tutti alla perversa mano dell’uomo), al cospetto della stampa internazionale e di una delegazione delle Nazioni Unite, dovrebbe essere raddrizzato il corpaccione riverso della nave, dopo quasi due anni di annunci, rinvii, smentite, rassicurazioni, la più ripetuta delle quali, come un mantra, è quella relativa ai costi: tutti i 600 milioni di euro  a carico della Costa e delle assicurazioni.

600 milioni che occorrono per la mission impossibile, mai tentata prima, a detta di Gabrielli, di rimettere la nave in posizione eretta per essere poi trasferita in un cantiere a cielo aperto per lo smantellamento. E vorremmo anche vedere che dovessimo contribuire alla bisogna, dopo che l’incoscienza oscena è costata 30 morti e 2 dispersi,  una catastrofe ai danni dell’ambiente e una altrettanto funesta ai danni della reputazione, danni questi incalcolabili e che probabilmente non verranno mai risarciti. In attesa che,  come è tradizione padronale,  la compagnia si rifaccia sui dipendenti dei 600 milioni,  vengono dati alcuni numeri sulla formidabile operazione di   parbuckling del relitto, lungo 300 metri, pesante 114mila tonnellate, e che dovrà ruotare di 65 gradi dalla posizione attuale.

Gabrielli ha fatto sapere di essere ottimista, beato lui: 22 mezzi navali, 8 chiatte, una “impalcatura” di 30 mila tonnellate di acciaio, 6 piattaforme sostenute da   21 pali conficcati a una profondità media di 9 metri, dovrebbero garantire che la nave non si spezzi.

Noi lo siamo un po’ meno, ottimisti: anche lui ammette che esistono  elementi di incertezza  non solo meteorologici. E comunque non c’è un piano B, o la va o si spacca insomma. Per non parlare dei tempi: secondo Passera e Clini, ministri in carica ai tempi del disastro, a settembre 2013 il naufragio e il suo monumento a futura memoria al largo del Giglio dovevano essere solo  un ricordo. Se l’operazione mai tentata prima dovessero andare in porto, appunto,  ci saranno da affrontare altre  grosse incognite: la verifica delle condizioni della fiancata sommersa  e le operazioni di sollevamento dai fondali.  Nel migliore dei casi dunque   la nave rimarrà al Giglio almeno fino alla primavera inoltrata.

E d’altra parte è difficile darci torto se siamo diffidenti: se il naufragio del Giglio rappresenta un’allegoria dell’Italia, è esemplare del comportamento “padronale” l’atteggiamento della Costa e ancora più simbolico quello delle “autorità” che si replicano nel trailer di quello che potrebbe accadere in un altro luogo ancora più denso di significati emblematici, quella Venezia attraversata nel suo cuore anche da quattro o cinque grandi navi al giorno.

Il business delle maxi-crociere è in continua crescita almeno quanto l’inquinamento che provocano: nel decennio 2000-2010 è passato da 10 a 19 milioni di passeggeri. Nei porti italiani la crescita è stata addirittura del 397%, è continuata, malgrado la crisi, nel 2011 (+ 16%), e nel 2012, sembra, almeno del 18%. Nel Mediterraneo il brand va a gonfie vele: era al 12, ora è al 18, presto potrebbe giungere al 20 % del business mondiale,  con Venezia che, arrivata a 1,8 milioni di imbarchi e sbarchi, è il principale “home port” europeo.

A essere contenti del successo del gigantismo via mare sono solo le compagnie, i porti e i cantieri. Va meno bene per il turismo, malgrado i dati gonfiati come un soufflé della multinazionali. Tanto per riferirsi alla sola Venezia, uno studio dell’Università di Ca’ Foscari smentisce le compagnie:  portano alla città soltanto l’1,9% del Pil e non il 6%, i  benefici in un anno sono 286 milioni, ma la città subisce spese per 313. Senza contare l’erosione, lo smog, la pressione, gli squilibri idrografici e paesaggistici. Finché sono in navigazione, infatti, questi colossi non inquinano molto, ma quando rallentano e si avvicinano alle rive il loro contributo allo smog ha punte altissime: si calcola che a Los Angeles concorrano per un quarto alla grigia cappa sopra la città, per non parlare dell’inquinamento delle acque.  ad esempio, dal punto di vista dei «benefici», le crociere portano ogni anno in città 286 milioni di euro, di questi 180 vengono dalle spese dei croceristi, 5 da quelle dei membri dell’equipaggio, 101 milioni il ricavo stimato di agenzie turistiche, ormeggi, pilotaggio e ricavi che finiscono alla Vtp, Venice Terminal Passeggeri,  e all’Autorità portuale. Totale, 286 milioni di euro. Ma secondo gli elaborati dei docente di Economia, i costi subiti dalla collettività sono ben più pesanti. 200 milioni di euro per l’inquinamento dell’aria, con cinque specie di inquinanti (diossine, zolfo, metalli pesanti) prodotte dalla combustione e dagli inceneritori dei rifiuti. Cento milioni di euro il costo stimato sul cambiamento climatico, per l’energìa prodotta necessaria a spingere la grande nave. 13 milioni infine i costi per l’inquinamento del mare, senza contare i danni ai monumenti – e il fenomeno di corrosione della pietra d’Istria ingenerato dai carburanti ad alto contenuto di zolfo – i danni alla salute, i danni statici agli edifici per l’enorme spostamento d’acqua provocato dal passaggio nei canali di navi che dislocano fino a 130 mila tonnellate. E infine le ripercussioni sulla  morfologìa lagunare.
Peccato che le autorità locali e nazionali giurino sui dati col segno più e trascurino i pesanti passivi di un turismo che assomiglia da vicino alle grandi opere e ai grandi eventi, per via di un gigantismo che alimenta illusioni megalomani e profitti per pochi ai danni dei molti. Così nutrono l’inganno  del lusso tenendo bassi i costi, grazie all’impiego di   personale non specializzato, che all’occasione, si scopre, non solo non sa calare una scialuppa in mare ma nemmeno balbettare qualche parola d’inglese.  Viaggiano come fortezze acquee, che somigliano a un quartiere satellite di una new town, con dentro shopping center e ristoranti, discoteche e cinema, negozi, palestre, teatri, casinò, piste di pattinaggio su ghiaccio, percorsi jogging, campi sportivi e vivono il loro momento di muscolare potenza quando, appunto, arrivano a sfiorare città vere, mondi reali, dall’alto del loro arrogante, pacchiano  e pomposo titanismo, da dove i confinati del turismo fotografa e fuggi, scattano le loro istantanee digitali, contenti di restare là, isolati, superiori, remoti.

 Come il Rex di Amarcord passano mentre la gente le guarda con le teste all’insù, le grandi navi che attraversano mari come fossero di stagnola  e coste come fossero di cartapesta. Ma si tratta invece di risorse vive, di posti veri, minacciati e   che devono essere difesi dall’affronto degli stupidi e insicuri colossi.


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