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Sia per un karma negativo, che impone a ogni azione - anche la più imprevedibile - di ricadere sul proprio futuro, sia per il tanto discusso malocchio, questo cous cous è amaro e sgradevole. Cous cous di Abdellatif Kechiche procede come una tragedia che passa sul volto di Slimane (Habib Boufares): mai un sorriso, mai un senso di appagamento, la sua storia è una sconfitta sia per la realtà di un lavoro continuo, faticoso e umiliante, sia per un sogno che si rapprende e perde ogni gusto. Non è un film facile, oltre a durare parecchio (due ore e mezzo buone): Cous cous richiede attenzione e un po' di pazienza, chi lo vede in italiano deve in più sopportare un doppiaggio che sarà stato anche difficile da realizzarsi ma non può non considerarsi oltraggioso, come spesso accade con i film francesi. E che Cous cous di Abdellatif Kechiche sia un'opera francesissima lo stanno a testimoniare i dialoghi e la ripresa fredda e distaccata della più autoriale cinematografia d'oltralpe.
Abdellatif Kechiche (regista e sceneggiatore) è in realtà capace di squarciare a tratti l'immagine con inattese inquadrature folgoranti: la capacità di vedere armonia delle forme in un contesto degradato e sempre al limite del collasso rischia per pochi attimi di fare di Cous cous addirittura un film estetizzante. Eppure si è dovuto fare un lavoro che conduceva ben altrove e che è costato molto sforzo e molta fatica, anche per via dei numerosissimi interpreti di questa produzione che, se non sono assoluti dilettanti, per lo meno non sono registrati in altre produzioni ufficiali. Gi attori sono quasi tutti sconosciuti e non si direbbe che brillino come singole personalità, ma davvero Cous cous di Abdellatif Kechiche è un film corale: ciò che conta è il progressivo allargarsi dello sguardo, o il frantumarsi dello stesso.
Per un siciliano come me è impossibile non pensare alle voci dei romanzi verghiani, attraverso le quali la storia procede e vengono gestiti retroscena e i tempi morti della vicenda. Dei Malavoglia in particolare, oltre alla barca che rappresenta la salvezza della famiglia del protagonista, c'è anche il figlio esteta e decadente, il figlio che si perde, che pianta questo mondo nel momento in cui avrebbe bisogno di lui. Ma Cous cous non è bello perché somiglia a qualcos'altro: è bello perché, nonostante un invincibile senso del tragico e del farsesco, ha il sapore della verità, di chi si spende la vita fino in fondo, di chi c'è e ci prova.
Non mancano i veleni alla Parenti serpenti, per intenderci, (specie tra la famiglia della prima moglie e l'attuale compagna di Slimane) e le donne sono descritte tutte in modo per lo più molto nevrotico, ma si prova a superare il malessere in nome di quelle forze che alle volte scopriamo in noi e che non sappiamo neanche d'avere. Cous cous è anche una vicenda di classi sociali, e la scena della cena per incoraggiare le autorità a concedere le necessarie autorizzazioni burocratiche lo dimostra: ma non è la gerarchia a contare, quanto piuttosto la distanza sociale, il muro invalicabile che separa chi ce l'ha fatta e si concede qualche volgare scappatella e chi invece rischia sempre di affondare. Il meccanismo narrativo dell'estraneità reciproca, dello sguardo critico e feroce dall'esterno, si sposa con il tema dell'infinita attesa del cous cous, la speranza, che per chi non ne ha bisogno è un piatto da consumare solo se buono e, per chi invece vi si aggrappa, lo sgomento di sentire il tempo che passa e la propria impotenza ad abbandonarsi ancora alla vita.
Dolorosissimo, ma molto bello.
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