Magazine Cinema
di Watanabe Shin'ichiro. Giappone 2001 genere, animazione 115'
Al volgere del secolo XXI, nella rallentata decomposizione di un mondo in apparenza ammansito, a ridosso delle celebrazioni di Halloween, il crimine - che ancora si alimenta dal basso di una prassi miserabile e routinaria e nei grandi numeri s'irrobustisce a colpi d'intrecci che vincolano a filo doppio istituzioni, apparati militari e grandi multinazionali della ricerca e della tecnologia - continua a passar da vivere anche a chi, e sono i cacciatori di taglie protagonisti, si adopera per circoscriverne a modo suo l'ingerenza. Spike Spiegel, giovane uomo lesto di comprendonio e di mani, quanto cinico e, di fondo, disilluso, assieme alla sua squadra - l'ex sbirro brontolone Jet Black, l'intraprendente e capricciosa Faye, la ragazzina prodigio Ed, geek naïf, e il perspicace botolo Ein - s'arrabatta tra miseri cabotaggi investigativi a malapena sufficienti a sbarcare il lunario. L'eventualità di un remunerativo cambio di registro (per relativa taglia sul capo) si materializza con la comparsa di Vincent Volaju, bio-terrorista umbratile, come unico superstite di rivoluzionari esperimenti a base di nano-macchine proteiche via via degenerati sulla china che separa la scoperta scientifica sensazionale dall'ennesima tentazione sull'assemblaggio dell'arma totale in foggia di epidemia globale. Uomo privato di ogni ricordo che non siano "meravigliose farfalle bianche" a fluttuare in improbabili grumi di luce, Volaju vaga in silenzio a mo' di scherzo-di-natura (immune al potenziale contagio), a meta' fra vendicatore solitario e incontrollabile Angelo della Morte... Al crocevia di suggestioni disparate eppure sotterraneamente sincrone - hard boiled, cyberpunk, fantascienza, distopia, western, esistenzialismo - "Cowboy be-bop/the movie" torna in questo 2015 sulla scia di una memoria tuttora vivida legata all'omonima saga, offrendo intatto, al netto di pregi e manchevolezze, un certo numero di elementi di fascinazione. Innanzitutto, il paesaggio urbano di Alba City, concepito come stratificazione oramai ineluttabile e, forse, fatale, di etnie e culture diverse, la cui collocazione lontana (2071) lenisce solo in parte ansie e aspettative tutte contemporanee. Squarci metropolitani che mimano e ibridano prospettive che ricordano, ad esempio, Chicago, Il Cairo, Sidney, Tokyo (a restituire, nel viluppo di quartieri residenziali e finanziari, centri commerciali, sopraelevate, suq futuribili, un'idea policentrica e ingovernabile di vita collettiva), ammantati spesso di una luce granulosa, azzardano addirittura il paradosso di un affanno retrospettivo che istilla il sospetto circa un domani sfuggito di mano o sprecato malamente nella forma ostile di un presente-agonia corrotto, brutale, a volte, ma ben impregnato di rassegnazione e tenuto soprassaturo dalla cupidigia e dal controllo sociale di pochi e dallo spauracchio/liberazione per un'apocalisse sempre imminente, di tutti gli altri. In secondo luogo - e sebbene in una dimensione che non rinuncia allo scherzo, come alle tregue più schiettamente infantili - la caratterizzazione psicologica, che delinea in modo semplice ma preciso i singoli personaggi, i quali trovano poi un denominatore comune nella moralità ambigua dei loro comportamenti - pacifici, violenti, più o meno interessati - mai ascrivibili ad un'etica netta, ossia non revocabile, nella implicita convinzione che certi nodi non sono destinati a sciogliersi se non, con ogni probabilità, in un epilogo tragico nemmeno tanto remoto. Ciò che più intriga, pero' - e sono gl'inserti davvero coinvolgenti del film - e' l'alterno rincorrersi di atmosfere indolentemente noir attraversate da partiture jazz soffuse o da morbidi blues a sottolineare i momenti riflessivi (e scoraggiati), degni di nota non tanto per l'incedere anti-retorico dei dialoghi (al contrario più di una volta appesantiti da una qual monotona assertività), quanto per il clima di arresa e quasi impacciata mestizia che emerge da dettagli dell'inquadratura non del tutto a fuoco o contraddistinti da una sorta di opaca persistenza: scarto che li rende, di fatto, incongrui, spostando di continuo la loro verosimiglianza verso l'indecidibilita' o il sogno. D'altro canto, meno convincente si dimostra l'animazione (e il disegno ad essa sotteso), di per se' abbastanza convenzionale nonostante, per dire, gl'isolati ammicchi sienkiewicziani degli arredi cittadini: sfondi e figure in primo piano svelano a tratti una non perfetta armonizzazione, mentre talune movenze umane risultano forzate o legnose. Tra echi ("Star Wars", "Blade Runner", "12 Monkeys", "Strange days", "Matrix") e premonizioni ("Wasabi", "Collateral"); innocui moniti anti-capitalisti ("McDonald's" si trasforma, in un graffito, in "WcDonald's") e fragili certezze (prosperare sul/per mezzo del crimine), "Cowboy be-bop", in ogni caso, non abdica alla propria vocazione prima, quella intimista con venature scettiche, a paragone della quale l'ottimismo per il raggiungimento di un provvisorio equilibrio sembra l'approdo definitivamente triste delle già inconsolabili e inutili lacrime-nella-pioggia. Keep the mower blades sharp. TFK
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