… ne avevo abbastanza quel giorno, non sopportavo nessuno, ce l’avevo con il mondo intero. Eravamo tutti seduti a tavola, cuochi e camerieri, io indossai le cuffiette del mio I-pod per isolarmi. La serata era stata massacrante, i tavoli li avevamo fatti girare un paio di volte, avevamo fatto mangiare un centinaio di persone. Tolsi per un attimo le cuffiette e sentii i soliti discorsi, il tizio del 211 era proprio una testa di cazzo, e quella tipa del 309 zitella e vegetariana a cui non andava bene nulla ?!, i cuochi si lamentavano con i camerieri per avergli mandato tanti piatti diversi, loro pretendono sempre dai camerieri di ricevere comande tutte uguali, mentre i camerieri continuavano a parlare tra di loro dei vari personaggi che avevano cenato nel ristorante, parlavano anche della bonazza del tavolo 115 con il fidanzato/papà pieno di lira e di quello che le avrebbero fatto se avessero avuto la possibilità di uscirci insieme anche solo per una sera. Rimisi le cuffiette per isolarmi nuovamente e in questa situazione di sospensione temporale passai al vaglio i visi di tutti loro, a capo tavola c’era Giorgio detto mozzarella per via della rotondità del suo corpo, il colorito chiaro come una mozzarella di bufala, il soprannome derivava però anche dal fatto che quando ti salutava ti dava una stretta di mano di quelle flosce. Era un buon padre di famiglia, e la sua massima aspirazione era quella di sistemare i figli e di andare finalmente in pensione. Accanto a lui c’era la pasticcera, di cui quasi tutti avevano dimenticato il nome, ormai lei era la Zia, un marcantonio di donna, con una capigliatura color argento che sbucava da sotto la cuffietta da cuoca, faccia materna ma pronta a menare chi oltrepassava i limiti della decenza, una decenza dai confini molto ampi perché dopo centinaia di cucine che aveva girato nella sua lunga carriera nulla la scandalizzava più, la sua specialità era coccolarci con dolci fuori menù sfidando le ire dei vari direttori, ma essendo una ex giocatrice di rugbi femminile poteva pure permetterselo di sfidare il potere interno. Accanto a lei era seduto Willy detto la pulce , il lavapiatti filippino, un ometto dall’età indefinita e indefinibile, faccia sempre sorridente e ossequiosa, instancabile lavoratore, un vero stronzo patentato, avevamo saputo che abitava in una mega casa in centro che affittava a decine di suoi connazionali facendogli pagare un boato di soldi e tenendoli stipati quasi uno sopra l’altro mentre lui occupava la stanza più grande e più bella con una concubina che soddisfava tutte le sue voglie. Ormai erano in tanti nel ristorante che aspettavano un motivo per dargli una bella lezione che consisteva in una scaricata di mazzate tale da insegnargli il rispetto verso il prossimo. Subito dopo c’era Manuela, la bartender, lesbica e isterica più che mai, la più brava nel suo settore ma la più intrattabile, aveva cambiato centinaia di posti, tutti la volevano ma dopo un breve periodo sistematicamente la mandavano via. Ero l’unico con cui aveva un rapporto normale, anzi amava sentire la mia voce, diceva che la rilassava, mi cercava spesso anche fuori dal lavoro, per raccontarmi e chiedere consigli su come gestire le sue burrascose relazioni amorose con donne sempre più mature e complicate, fatte di gelosie, continui scontri verbali e fisici che poi finivano quasi sempre in maratone sessuali descritte nei minimi dettagli. Cercava in me quella serenità che il padre alcolizzato non le dava e che doveva pure mantenere visto che non era in grado di lavorare. Alla sua sinistra era seduto Edoardo detto PDF (pentola de fascioli), per via dei continui borbottii contro i capi e contro il sistema intero. Non l’aveva scelto quel mestiere ma ci era capitato a seguito di una brutta storia. Stonava con il resto del gruppo, si percepiva lontano un miglio che era di un altro pianeta, fumatore di sigaro, intellettuale di sinistra dal passato politico burrascoso in prima linea, grande divoratore di libri e gran bevitore, uno di quelli da compagnia, i clienti lo amano, ricciolone con gli occhi azzurri e un sorriso sincero che spesso coinvolgo nei miei traffici extra lavorativi e sempre pronto a venirmi in aiuto in qualsiasi momento come oggi che avevo sbagliato i tempi di chiamata per i primi del tavolo 207 e mentre lo chef sbraitava e urlava di portargli i piatti mi sono accorto che non avevano finito gli antipasti. Vedendo il mio sguardo di chi l’ha combinata grossa è partito in quarta verso il tavolo e con fare paterno e risoluto, gesticolando e sorridendo è riuscito a togliergli i piatti affinché io arrivassi con i miei primi belli fumanti. Al capotavola opposto era seduto lo Chef , detto sceffone, per la sua bravura e per tutti gli eccessi che lo contraddistinguono. Milanese, cinquantenne, pazzo, ubriacone di livello, di quelli di cui si parla poco della sua bravura ma molto di quanto sia una testa di cazzo da sobrio e fuori di testa da ubriaco, uno che al minimo errore dei camerieri e i camerieri di errori ne fanno molti descrive minuziosamente e con tanto di body language cosa farebbe alle loro mamme e alle loro sorelle se solo fossero state lì in quel momento il tutto condito da una serie interminabile di bestemmioni in dialetto milanese e non. Non lo sopporto nel suo complesso ma mi rapisce ogni volta quando sta per iniziare il servizio, chiama a raccolta i suoi ragazzi in cucina e con l’estrema eleganza di un pescatore con la mosca fa sventolare la parannanza in avanti e la indossa con un gesto rituale, fino a legarsela sotto la vita e a ripiegare il bordo superiore con la stessa precisione maniacale di un serial killer che si sta preparando all’ennesimo omicidio. Al fianco dello chef era seduto Anuar il suo fedele vice chef, detto anzi sussurrato Giro Batol, di lui non si sapeva niente oltre il nome, non parlava praticamente mai e con nessuno, rispondeva solo con gesti del capo, aveva un aria da vero trucido. Conosceva a memoria lo chef e le sue tecniche lavorative. Nessuno era in grado di dire o capire l’umore di Giro Batol, non si riusciva a capire se fosse allegro o triste ma tutti avevano capito che quando metteva il suo lungo coltello nella cintura a mo di spada era incazzato e di conseguenza nessuno osava nemmeno guardarlo. Il soprannome glielo avevo dato io sia per come portava il coltello sia per la fedeltà assoluta verso lo chef che mi ricordava il Giro Batol mitico e fedele compagno di Sandokan. Tra me e Giro Batol rimaneva l’ultimo componente dell’intera brigata del locale, Massimiliano detto Max, Max è il diminuitivo di Massimiliano ma anche un chiaro riferimento alla copertina del periodico maschile Max, si perché lui è figo, il figo del gruppo, bello come il sole, coatto come pochi e vuoto come il gran canyon, è la nostra versione del De Filippi uomini e donne show, un misto tra un personaggio di Verdone e Costantino. Porta i pantaloni da cuoco vita bassa con tanto di mutande griffate, odia il classico cappello da cuoco perché ( sue testuali parole ) me sfrancica i capelli e nun me va ogni vorta de spenne o stipendio a comprà tubbi de ggel . Terminato il giro e descritto tutti i miei colleghi mi resi conto che stavo mangiando come ogni giorno il solito piatto di pasta asciutta, freddo e ormai incollato e mi venne spontanea una riflessione: forse è arrivato il momento di lasciare questo mestiere e di inseguire il mio sogno di scrivere un libro e se mi va bene divento pure uno scrittore affermato.
Non mi rimaneva altro che trovare il coraggio…
Cozze e peperoni
Ingredienti per 4 persone:
700 gr. di peperoni
500 gr. di cozze
1 spicchio d’aglio
3-4 pomodori grossi e maturi
Olio extravergine di oliva
Preparazione:
Togliere i torsoli e i semi ai peperoni, lavarli e tagliarli a striscioline verticali e soffriggerli in olio con uno spicchio di aglio tritato e i pomodori schiacciati. Dopo una decina di minuti aggiungere le cozze senza aprirle, ma ben lavate. Cuocere per una decina di minuti e versarle con tutto il brodo di cottura in piatti in cui sono state messe delle fette di pane raffermo bruschettate.
Vino: con questo piatto io nei calici verserei un biancolella di Ischia.
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