Un vero e proprio paradosso, secondo quel luogo comune che vorrebbe invece l'amore come un darsi totalmente e pienamente. Ma, come abbiamo appurato ormai diverse volte in questo nostro viaggio nei labirinti dell'amore, la condizione straordinaria del paradosso è, per l'amore, la normalità, come in questo caso in cui proprio nella mancanza è possibile nutrire la pienezza e la totalità che l'amore rivendica.
Amiamo ciò che non abbiamo, a partire da quell'Altro che mai avremo proprio perché lui non siamo noi, perché il suo corpo non è il mio, perché la sua mente, per quanto a noi affine, non sarà mai la nostra.
Ma dobbiamo lottare affinché tutto ciò avvenga veramente. Dobbiamo sconfiggere la pigrizia come pure la nostra straordinaria abilità di specie di saper ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo. E dobbiamo, invece, fare la necessaria fatica affinché l'abitudine all'Altro non ci faccia diventare come l'Altro, non ci faccia tanto coincidere a lui da confonderci con lui esautorando la mancanza.
Ancora un paradosso, dunque, poiché stare con l'Altro, vivere con lui, la straordinaria bellezza e opportunità di stare insieme, si traduce (o si dovrebbe tradurre) proprio in un viaggio di conoscenza in cui tanto più sappiamo dell'Altro, tanto più lo com-prendiamo, lo prendiamo in noi, facendolo nostro, tanto più si apre lo spazio della serena beatitudine del capirsi e dell'essere capiti, finanche anticipandosi... e si evade da sé, dalla propria mortale solitudine, per essere accolti dall'Altro in un immortale abbraccio che sa di infinito (vedi: "A guardia della tua solitudine").
Ma... ed ecco il paradosso, questo paradiso può trasformarsi in un inferno se, insieme alla pienezza che ci dona, non siamo in grado di provocare quella mancanza che rende possibile ricominciare ogni volta il gioco del conoscersi e del riconoscersi, se non siamo capaci di fuggire dallo scontato che ci intrappola per dare, invece, ciò che non si ha e, così, creare quel vuoto che solo rende possibile generare un nuovo pieno.
È non c’è modo di dare ciò che non si ha, di nutrire la mancanza, se non entrando nel campo dell’immaginazione. Nutrire la mancanza significa, infatti, spostarsi nello spazio dell’ipotetico, del potenziale, di ciò che non c’è ma avrebbe potuto o potrebbe esserci: quel “golfo della molteplicità potenziale” lo definisce Italo Calvino (1988), che è indispensabile per qualsiasi forma di conoscenza, figuriamoci per quella conoscenza senza conoscenza che è la relazione amorosa. Amare dunque, dovrebbe prevedere la costruzione di quello spazio in cui l'immaginazione trionfa sull'intelligenza, compito certo non facile in questo nostro tempo che proprio sull'intelligenza e sulle modalità di indagine del raziocinio ha scavato le sue fondamenta (e, con gran probabilità, la sua fossa) abbandonando quasi totalmente la sapienza dell’immaginazione.
Eppure, nell'intricato gomitolo della complessità umana, non c’è luogo come l’amore in cui l’immaginazione sia più necessaria e pertinente e dove l’intelligenza mostri, invece, tutta la sua inutilità. Ritorna allora in mente la riflessione di Kahlil Gibran, più volte citata in questo blog, in cui il grande poeta afferma che ognuno di noi ama sempre due persone: l'una creata dalla sua immaginazione e l'altra che deve ancora nascere.
Sono queste due entità mancanti che nell'amore vanno continuamente cercate nell'Altro e rappresentate da noi per l'Altro, con l’aiuto della nostra immaginazione affinché l’Altro in esse si conosca o si disconosca, compiendo comunque un tragitto oltre ogni ristretto sé, passando, cioè, da una concezione statica dell’amore come qualcosa di dato, ad una elaborazione dell'amore come azione che inventa e crea scenari di passione.