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Crisi finanziaria: il potere delle élite, la debolezza delle masse

Creato il 01 luglio 2013 da Sviluppofelice @sviluppofelice

daily.wired.it -

di Stefani Ricci

In un sistema democratico, che tipo di controllo dovrebbero esercitare i governi sul mercato finanziario? E che ruolo dovrebbe avere la società civile di fronte alla sfacciata preminenza delle élite finanziarie sul resto dell’economia? Il libro di Engelen e altri (After the great complacence: Financial crisis and the politics of reform, Oxford University Press, 2011) cerca di rispondere a queste domande. Il gruppo di autori (provenienti da diversi settori: contabilità aziendale, banking, sociologia, etc.) da tempo si occupa della finanziarizzazione del capitalismo occidentale.[1] Questo libro mette in discussione l’ontologia delle ultime crisi finanziarie, quella del 2007-08 e quella più recente (conseguente?) dell’Euro. L’argomento centrale è: a dispetto delle visioni accademiche dominanti, la crisi del 2007-08 non è un “incidente di percorso” dovuto alla crescente complessità delle strutture di debito, né è il frutto di una regolazione blanda che ha favorito “alti rischi” ed “alte ricompense”. Il diavolo, piuttosto, sta nella “élite débâcle, cioè nei limiti delle politiche sui mercati finanziari. L’élite politica ancora resiste ad una necessaria nuova regolazione della finanza, che tolga all’interesse degli azionisti la priorità su tutto il resto (occupazione, produzione, innovazione, ecc.). Una conferma di ciò è l’ossessione politica del valore instabile dei bond sovrani, del rating e dello spread.

Il paradosso è che la stessa élite che c’era all’origine della crisi adesso tenta le soluzioni. Una tendenza, che in Italia è la norma da decenni, ma che nei paesi anglosassoni viene tollerata molto meno. Quindi gli autori si chiedono: come è possibile tutto questo? Un tentativo di risposta è nella “sconnessione democratica” tra popolazione votante e democrazia regnante, che ha impedito di tradurre la pubblica ostilità contro il sistema finanziario in un’agenda di riforme. È come se i governi eletti si comportassero come governi tecnocratici, che non devono andare molto oltre il rebalancing, senza mettere in discussione il modello di un decennio fa quando la finanza globale cresceva euforica.

In tutto questo, è cruciale il ruolo delle élite nel creare potenti retoriche a sostegno di una plutocrazia soddisfatta di sé. Ad esempio, poco prima del crollo di Lehman Brothers, Bernanke affermava: “Dovremmo sempre tener presenti gli enormi benefici apportati da un robusto e innovativo settore finanziario. La crescente complessità e spessore dei mercati finanziari, attraverso l’allocazione spontanea del capitale dove esso è maggiormente produttivo, promuove la crescita economica. E la più ampia distribuzione del rischio nel settore finanziario ha fino ad oggi aumentato la resistenza del sistema agli shock economici”.[2]

Gli autori concludono che la crisi finanziaria ha rinforzato, piuttosto che indebolire, il ruolo della finanza nell’economia. È come se i miliardi di miliardi in movimento nel mondo, impacchettati in prodotti talmente complessi da sfuggire alla piena comprensione delle banche stesse che li commerciano e delle istituzioni che le supervisionano, fossero la forza trainante e indisturbata del capitalismo attuale. Ciò significa che la BCE, la Federal Reserve, la BIS e i governi nazionali non hanno reale potere decisionale, poiché devono fare i conti con gli umori di Goldman Sachs, dei giganteschi fondi pensione, delle agenzie di rating e, in generale, della lobby finanziaria.

Molte banche multinazionali per anni hanno convertito il debito in bilancio da elemento passivo in attivo (asset), da vendere sul mercato dei capitali,[3] sia per ricavarne grossi guadagni sia per rientrare nel rapporto debito/liquidità stabilito da Basilea II. Esse si sono esposte così a rischi molto maggiori di quelli ritenuti accettabili. Per di più tale “attivo” può essere re-impacchettato e rivenduto per due, tre, cento volte e, dopo un certo numero di transazioni, di esso si perdono le tracce. Quindi è impossibile calcolare il rischio associato a quel titolo e riservare la giusta quantità di liquidi per compensarlo in caso di perdita. Tali meccanismi sono fuori dal controllo persino delle istituzioni politiche internazionali.

Bisogna, afferma il libro, limitare per legge la possibilità di creare immense catene di debito di cui spesso si perde il filo. Le norme di Basilea 1 e 2 sui capitali delle banche da accantonare per far fronte al rischio si sono dimostrate fallimentari perché non si può conoscere il rischio collegato a prodotti così complessi.

Infine gli esempi empirici del libro fanno capire alcuni meccanismi cruciali della preminenza dei mercati finanziari e dei limiti regolativi della BCE e dei nostri governi.


[1] Il loro “best seller” è Froud et al. (2006) Financialization and Strategy, London: Routledge. Per altre indicazioni si veda il sito del Centre for Research on Socio-Cultural Change (CRESC). Per un’intervista con il team del libro qui recensito: http://www.youtube.com/watch?v=4Rc4CgGAXAQ.

[2] Ben Bernanke, “Regulation and Financial Innovation”, Sea Island Conference, 15 May 2007.

[3] I cosiddetti Collateralized Debt Obligations (CDO).


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