E poi si dice male della crisi … è che si sottovaluta la potenza invisibile della produttività e del mercato, invece basta andare da Feltrinelli e si scopre che il tavolo delle novità è una cornucopia doviziosa di libri, pubblicazioni, instant book, ponderose raccolte di saggi, inchieste, pamphlet, e tutti nel solco del brand-crisi: giornalisti, supini in redazione e esuberanti fuori, economisti impenitenti malgrado gli accertati fallimenti, santoni e guru, divulgatori del disastro e festosi rovinologi, profeti disarmati negli atti ma belligeranti con gli scritti, confezionano e sfornano prodotti caldi caldi cotti e da mangiare con la rapidità della Parodi.
Si tratta di un’opera meritoria per carità, anche se temo abbia ragione il Simplicissimus che l’informazione gridata alla Barnard, seppure a volte gradita, rischia di annegare nel suo stesso eccessivo volume. Si tratta di una forma di divulgazione necessaria, certamente, ma – e faccio autocritica – non sarà che il riprodursi ossessivo dell’invettiva senza che si suscitino azioni, della chiamata alle armi stando comodamente assisi al desk o accomodati negli studi televisivi o sui trespoli universitari, tra un po’ perfino quelli della Bocconi, non produrrà oltre che gettoni di presenza, comparsate, qualche quarto d’ora di celebrità e peraltro scarsi diritti d’autore, una inevitabile assuefazione? Se perfino il Sole 24 ore denuncia l’inadeguatezza del governo Monti, se perfino i premi Nobel abiurano l’ideologia neo liberista prima considerata desiderabile, se poderosi privatisti cominciano a rimpiangere il ruolo benefico di uno Stato, padre e manager, eppure se nulla smuove la tracotante inamovibilità della cupola, allora ha ragione Rodotà, non Bakunin, Rodotà, che celebrato insieme a Landini nel giorno dello sciopero contro l’europa della finanza, ha fatto ammenda: “per stare davvero dalla parte dei diritti, non basta scrivere libri o articoli di giornale, bisogna stare insieme a chi si batte per difenderli», per sé e per tutte le persone. Perché se una sola persona viene discriminata, è a rischio la libertà di tutti.
Si non basta più scrivere libri, articoli, fare opera di denuncia, ci vuole ben altro per ripristinate condizioni di legalità democratica. Ormai i governi, voluti da un potere sovranazionale che non ha nulla di segreto e arcano, praticano forme di discriminazione tra i cittadini, oltraggi alle carte costituzionali, abbattimento della sovranità statale, annichilimento dei parlamenti, impoverimento del welfare, collusione e conclusione di patti esecrabili con forze opache, siano criminali più o meno organizzati, imprenditori sleali di obblighi di sicurezza e tutela, evasori conclamati e protetti, cancellazione di diritti universali, sostegno a manager che non rispettano tribunali preferendo vendette e rappresaglie, sicché non è provocatorio dire che si tratta di regimi illegali, ai quali è riuscito, grazie a partiti invertebrati e intesi solo all’autodifesa delle proprie rendite di posizione, un golpe antidemocratico.
Tanti in questi anni hanno parlato di una società civile che può sostituirsi alle caste. Che c’è ed è fatta di gente che comunque ogni giorno fa modestamente oscuramente e sempre più rabbiosamente fa quello che deve, che ormai viviamo in un sistema nel quale ci costringono a dimenticare quello che vorremmo fare. Che non si riconosce come èlite, anche perché è riuscita l’operazione di frammentarla, disunirla, frazionarla in segmenti ostili gli uni agli altri, sempre sulla difensiva alimentata dall’incertezza e dalla precarietà. Abbiamo lasciati soli gli operai della Fiat, tanto non c’erano più le classi, abbiamo lasciato soli quelli che si riconoscevano nelle stelle polari della sinistra, tanto non c’erano più le ideologie, abbiamo lasciati soli i laici, tanto quelle sono battaglie di retroguardia rispetto alla crisi, alle priorità della necessità. Così restano soli gli insegnanti, gli studenti, i minatori, i terremotati, quelli di Orvieto e Albinia. Anche se sono dalla parte della legge, loro, noi. E’ proprio ora di metterle insieme queste solitudini.
Stavolta ho scritto “noi”, usato la prima plurale anche se non mi sento responsabile di complicità. Mi sento semmai colpevole di essere stata appartata, perché mi ci hanno messo o magari perché sono choosy e sembrava un’opera inane reagire alla volgarità, alla corruzione, alla mediocrità. Ma non è più questione di stile, è questione di vita o di morte, come succede quando c’è un guerra. E questa è una guerra che ci è stata mossa. Ed è una guerra di religione, perché tocca dar ragione a Benjamin quando scrive che nel capitalismo può ravvisarsi una religione: “vale a dire che il capitalismo serve essenzialmente alla soddisfazione delle medesime ansie, sofferenze, inquietudini, cui un tempo davano risposta le cosiddette religioni.
E uso il noi anche perché non smetterò di scrivere per rabbia, per passione, per “vivere”, ma devo ricordarmi anche io che non basta, accidenti. Che bisogna continuare anzi, ma che scrivere, fare clic sul mi piace, condividere virtualmente non vuol dire che si stia nella polis, che si fa l’azione più bella e civile che ci sia, la politica. Oggi più che mai che quella religione della quale parla Benjamin ha reso anche questa nostra “espressività” un servizio al mercato, al capitalismo “informazionale”, colossi dello hardware e del software, telecom, dot.com e nuova industria culturale, a una concentrazione monopolistica, accelerata dalla crisi, di proporzioni mai viste. Oggi più che mai che i commons immateriali che vengono generati dalla creatività e dall’intelligenza collettiva delle comunità virtuali sono oggetto di appropriazione e di sfruttamento, per estrarne plusvalore. Oggi più che mai che anche quando pensiamo che perfino con la denuncia si stiamo «liberando» dal mercato proprio quando quest’ultimo si prepara a colonizzarci.
Si non basta, ma è già qualcosa, se qui circola realtà, quella che le fortezze del potere tengono fuori sparando spingarde e menzogne, se qui circolano le immagini e la poesia della rabbia. Se anche da qui usciamo dalla solitudine nella quale ci hanno cacciati per tornare a essere parte di quel popolo di “lavoratori” che deve imparare a stare unito.