1. Va manifestato il massimo disappunto per come la crisi iniziata nel 2008 è stata trattata da sedicenti esperti, che hanno solo enfatizzato le crisi di Borsa, il falso problema dello spread, al massimo criticando i “cattivi finanzieri”, magari per carenza di etica, ecc. Alcuni studiosi di economia più seri hanno affrontato il problema con altri strumenti e con una migliore conoscenza delle varie teorie sulla crisi formulate da autori ormai divenuti dei “classici”. Non ritengo inutile il lavoro di questi studiosi odierni, ma qui mi interessa, come ormai sottolineato più volte, la motivazione profonda e cogente delle crisi (di tipologia variabile), quella motivazione che non attiene alla pura economia, bensì alla politica. Non mi riferisco però in tal caso agli apparati e istituzioni della sfera sociale detta Politica, in gran parte rappresentata da quello che chiamiamo Stato (e poi i partiti, ecc.); bensì alla sequenza di mosse strategiche che i vari attori compiono per vincere nel conflitto che li oppone e conquistare così la supremazia.
Da tale punto di vista, la crisi iniziata di fatto nel 2008 – e fin da subito la assimilai a quella di sostanziale stagnazione del 1873-96 – va considerata il segnale d’apertura di una nuova epoca di accentuato scontro multipolare, che comporta lo scoordinamento delle complessive relazioni tra le numerose formazioni particolari (in definitiva, i vari paesi); e dunque pure del cosiddetto mercato globale. In realtà, non si tratta affatto del semplice mercato, bensì di un riposizionamento delle formazioni in questione nei loro rapporti di forza in merito al controllo di determinate sfere d’influenza. Dal tendenziale monocentrismo Usa (1991-2001) si sta entrando in una fase di assai instabile (dis)ordine mondiale, causato da una ancora incerta, ma non irrilevante, crescita di potenza di nuovi paesi (in particolare Russia e Cina). Difficile prevedere quale sarà il risultato finale di una simile fase di intensi squilibri.
Propendo comunque per la prosecuzione, sia pure non lineare bensì con andamento a sbalzi, della tendenza al multipolarismo (attualmente ancora molto imperfetto) in direzione dell’usuale policentrismo che annuncerà un periodo di acutizzazione del conflitto per il predominio mondiale; e non certo di tipo prevalentemente economico, bensì soprattutto politico e bellico. Ed è al servizio di quest’ultimo che funzionerà, in definitiva, l’economia di vari paesi in fase di trasformazione decisamente innovativa. Si verificheranno pure, soprattutto nei paesi che si avvieranno ad essere effettive potenze, modificazioni non indifferenti delle “strutture” sociali (delle forme dei rapporti tra i diversi gruppi sociali). La crisi, nel suo aspetto più superficiale, quello economico appunto, sarà lunga e tormentosa, strisciante e priva di impennate verso alti ritmi di crescita; nel contempo, non dovrebbe nemmeno condurre a catastrofici sprofondamenti. E’ probabile qualche crac finanziario, più difficilmente bruschi e autentici crolli nei settori della produzione; almeno per alcuni anni a venire. La sfera economica sarà però investita da mutamenti intersettoriali, da avanzamento di date branche (alcune anche nuove) con arretramento di altre.
Anche se, come sostengo da tempo, è lo squilibrio a creare i suoi portatori soggettivi (gli “attori” in lotta, in questo caso i vari paesi) grazie al movimento incessante da esso indotto, detti soggetti non sono tuttavia strettamente determinati, non sono privi di libertà di scelta sia pure entro un dato ventaglio di possibilità d’azione. Inoltre, quando si fa riferimento al mono o policentrismo, al multipolarismo, ecc. balzano in evidenza, quali agenti (creati dal movimento squilibrante), le formazioni particolari: predominanti (le potenze), subdominanti o più nettamente subordinate. Tuttavia, in queste formazioni (paesi, nazioni, ecc.) sono presenti diversi raggruppamenti e gruppi sociali; e anche questi sono emersi – con i vari nuclei dirigenti che di fatto li orientano – nell’ambito del flusso di conflitti generato dall’oscillazione vibratoria.
Ecco allora che il discorso sulla crisi apre in realtà la porta a una ben più rilevante, e complicata, discussione sui vari tipi di conflitto (di “guerra” in senso lato) che si scatenano ai diversi livelli della formazione sociale nel suo aspetto generale (globale). Due sono i principali conflitti da prendere in considerazione: lo scontro tra le varie formazioni particolari (paesi, nazioni, ecc.) per il predominio mondiale (o almeno “regionale”, cioè di una particolare area del globo) e quello che fu indicato, a lungo e da una particolare concezione teorico-ideologica, quale “lotta di classe”, cioè scontri e frizioni tra gruppi sociali all’interno delle formazioni in questione. Non sono però soltanto questi gruppi, nella loro complessiva costituzione, a determinare con la loro azione (“di massa”) la prevalenza di uno o più d’essi (o delle alleanze fra alcuni di essi, quelle a volte definibili blocchi sociali) in ogni data formazione. Decisiva appare sovente la discesa in campo di nuclei dirigenti in competizione più o meno acuta e più o meno capaci di conquistare il controllo del paese. I nuclei in questione – e non le sole “masse in movimento” (cioè i raggruppamenti sociali) – sono a mio avviso i più efficaci portatori soggettivi ultimi del movimento squilibrante e dei conflitti da esso indotti; e il prevalere di questo o di quello di detti nuclei definisce la differente tipologia cui appartiene un determinato paese (pre o sub dominante o nettamente subordinato ad altro, ecc.).
Lasciamo pure gli studiosi (quelli seri però) discorrere sulle varie cause economiche delle crisi, sulla loro periodicità e lunghezza, sui mezzi per contrastarle, quasi sempre con la convinzione che lo si possa fare e che solo manchi la buona volontà o si commettano errori evitabili, ecc. Personalmente sto cercando un differente percorso (teorico) utile alla comprensione di ciò che è il più generale e cogente fattore dello squilibrio, considerato nelle sue più essenziali cause.
Parto dal principio che lo squilibrio genera il movimento; e quest’ultimo ha come effetto il conflitto e la formazione di “punti di condensazione” rappresentati dai portatori soggettivi, dagli “attori” che sono fra loro in lotta nella realtà di superficie (“di palcoscenico”, ecc.). Essendo quelli più visibili, li si osserva muovere, attribuendo loro e al loro modo d’agire la causa dello scontro e dei suoi effetti. Si sostiene allora la possibilità di invertirne il comportamento, di realizzare accordi, sol che lo si voglia realmente, smorzando così il conflitto, forse giungendo un giorno alla piena cooperazione, creando infine un mondo senza più crisi di alcun genere: né politiche e sociali né economiche, né internazionali (tra i vari paesi) né interne (tra i vari raggruppamenti sociali). Resta, allora, soltanto la “saggezza religiosa” a ricordarci l’ineliminabilità della lotta tra bene e male; e almeno per questa via ci si salva dalle peggiori ipocrisie e falsità del “buonismo” dei dominanti che devono far credere ai sottoposti molte fanfaluche nel tentativo di perpetrare il loro dominio.
2. Sul palcoscenico, una data opera va rappresentata seguendo il testo dell’autore; certamente, però, la regia introduce curvature particolari e gli attori, se capaci, mettono in piena luce determinati significati, che devono comunque essere quelli presenti nel testo in questione, altrimenti abbiamo a che fare con tutt’altra opera. Il “testo scritto” dal movimento squilibrante, generatore di conflitti, è quello che è; tuttavia, non si è passivi nella lotta e ci si deve impegnare nella “migliore rappresentazione” possibile. Nessuno sostiene che gli attori non possano apportare a quest’ultima variazioni anche significative. I portatori soggettivi non sono determinati nel loro agire fin nelle minime minuzie, essendo invece in possesso di qualche “grado di libertà”. L’importante è smetterla di credere che essi siano capaci di ottenere risultati contrari, opposti, a quelli indicati nel “testo”: già scritto da tempo immemorabile, dall’intera storia dell’umanità, delle varie formazioni sociali succedutesi. Sì, lo so, ci si rifiuta a questa condanna, si è spesso convinti che alla fine potrà trionfare la bontà, l’accordo, la pace.
La crisi iniziata da quattro anni ci accompagnerà a lungo. E’ una tipica crisi di scoordinamento legata all’incipiente multipolarismo. La vera differenza rispetto a quella, più volte ricordata, di fine secolo XIX è la deflazione dei prezzi verificatasi allora. Tuttavia, avremo probabilmente modo di assistere anche a quel fenomeno. Anzi già adesso abbiamo in molti settori questa deflazione e anche il rialzo dell’indice generale dei prezzi è in definitiva minimo rispetto ad un tempo. Se poi abbandoniamo i paragoni effettuati soltanto in sede di andamento dei processi economici, riusciremo negli anni ad afferrare meglio una serie di mutamenti maggiori verificatisi in periodi storici simili a quello che prese avvio con la lunga crisi di depressione ottocentesca e che fu caratterizzato dal declino inglese. Non facciamoci però trarre in inganno ancora una volta: non fu quel declino il fenomeno più rilevante dell’epoca (detta imperialistica). Esso, fra l’altro, non era ineluttabile se non con il solito senno di poi. Si verificò allora soprattutto la fine del capitalismo quale si era formato in Inghilterra e poi in Europa (e, inizialmente, pure negli Stati Uniti), quel capitalismo borghese che servì da modello per l’analisi marxiana e il cui tramonto fu pensato come inizio della rivoluzione proletaria mondiale, in grado di seppellire il capitalismo tout court.
La depressione di fine ‘800, durata circa un quarto di secolo, aprì la via alle vere grandi crisi, soprattutto belliche – con ulteriori riflessi economici critici in date contingenze: tipo quelli del 1907, “trascinatisi” di fatto fino alla prima guerra mondiale, e del 1929, anch’essi superati solo con la seconda – che hanno prodotto la radicale mutazione storico-sociale cui hanno assistito le generazioni del secondo dopoguerra. L’attuale crisi di relativa stagnazione verrà infine considerata fra un bel po’ di tempo come l’apertura di una nuova “grande trasformazione”. L’illusione della lotta tra capitalismo e socialismo, tipica dell’epoca del mondo bipolare, ha completamente sviato l’attenzione degli studiosi, con l’incomprensione totale dell’avvenuto passaggio dal capitalismo borghese a quello dei funzionari del capitale (definizione da me escogitata provvisoriamente e che sono il primo a considerare non del tutto soddisfacente; comunque si tratta del capitalismo di matrice nordamericana). Adesso siamo entrati in una nuova epoca di netti, probabilmente violenti, sconvolgimenti con ulteriori modificazioni della formazione sociale, che continuiamo a definire genericamente capitalistica in base all’esistenza degli apparati tipici della sfera economica: il mercato e le imprese, ecc. Stiamo accumulando ritardi su ritardi e ci impantaniamo nel chiacchiericcio inconcludente più che in autentiche analisi teoriche.
Ci dimostriamo anzi in possesso di scarse capacità d’indagine, tutti dediti al momento presente. La memoria del passato è continuamente ignorata; e, quando non lo è, ci si dedica incoscientemente al suo completo travisamento, a raccontarci una storia ampiamente alterata e dunque incompresa. Il futuro è oggetto di futili discussioni sull’ottimismo o invece il pessimismo, di fatue promesse tipiche di una “democrazia elettoralistica”, che ha creato individui incapaci di pensare e problematizzare il proprio vivere per un periodo di tempo che superi qualche mese. L’abissale superficialità (condita di irritante presunzione) dei “tecnici”, degli “specialisti”, è l’autentica cifra della nostra fase storica, specialmente in questo “occidente” ormai stramaturo, marcio e sfatto.
Ritengo utile prendere intanto atto di una realtà che credo ci apparirà evidente entro qualche anno: la crisi attuale non è prevalentemente economica e difficilmente riaprirà la porta a prossimi nuovi boom. Essa ci farà galleggiare in una situazione depressiva (in molti sensi) e andrà mutando in direzione di più netti sconvolgimenti di varia forma, ancora per larghi versi imprevedibili. Tuttavia, come già detto, gli agenti (i portatori soggettivi) dell’“oggettivo” movimento squilibrante, e generatore di conflitti, non sono del tutto passivi né tanto meno inerte preda di un improvvido Destino, poiché esistono invece per essi certi “gradi di libertà”. Sarà dunque utile cercare di afferrare le determinanti e le caratteristiche di massima dei prossimi conflitti. Un lavoro irto di difficoltà e complesso, che sconterà la lunga parentesi di paralisi della nostra ricerca.
Lasciando perdere gli inutili cantori della “libera individualità” nella sua interazione soprattutto mercantile – una concezione di una vecchiezza insopportabile – dobbiamo superare anche le stantie concezioni della “divisione in classi” e della lotta fra queste. Tuttavia, è indubbio che funzionano ancora gruppi sociali (non ben conosciuti e soprattutto affastellati confusamente nella dizione di “ceti medi”) e si formano – spesso disfacendosi e riformandosi in periodi ravvicinati data la loro labilità e il loro pressapochismo politico – nuclei direttivi dotati di strategie raramente ben fissate e con obiettivi spesso incerti e cangianti. In ogni modo, è in questa direzione che dobbiamo iniziare la nostra strada di analisi, perché qui incontriamo appunto gli “attori” che recitano la politica e i “registi” che mettono in scena il conflitto. Mi sembrano al presente molto scadenti e gli uni e gli altri; ma così sono e al loro comportamento ci si deve attenere. Sapendo però distinguere tra portatori soggettivi (sia pure dotati di una qualche libertà di scelta) e movimento squilibrante che rappresenta il vero regista d’ultima istanza del conflitto in via di acutizzazione multipolare.
Qui siamo e da qui dobbiamo riprendere teoricamente le mosse.