La Cina, sempre lei. È la bestia nera di ogni imprenditore che vuole confrontarsi sui mercati internazionali. Da quando ha deciso di fare concorrenza su quello del lusso – oro e gioielli – a Valenza hanno perso le staffe: “Un incastonatore cinese guadagna 90 $ al mese e lavora 20 ore al giorno”, spiega il presidente dell’Associazione Orafi Valenzana, Bruno Guarona, gemmologo, prima in giro per l’Italia a vender i gioielli degli altri, poi imprenditore col marchio BiBiGì (la “Gi” sta proprio per Guarona) di San Salvatore, una delle poche realtà medio grandi a non aver conosciuto la crisi del settore, che da anni miete vittime tra i laboratori e l’indotto della lavorazione dei metalli preziosi. Guarona si lamenta: “I dazi doganali italiani sono del 2,5%, mentre quando esportiamo in Cina dobbiamo pagare il 30%. In India il 25 e negli USA il 6,20%. La sproporzione è evidente”.
Nel 2009 le imprese in provincia di Alessandria che operavano nel settore erano 1132, di cui 951 solo nella zona di Valenza. A giugno 2011 la Camera di Commercio ha calcolato che di queste ne sono rimaste a galla 1.068. E gli artigiani di Valenza sono quelli ad aver sofferto maggiormente la crisi: “I piccoli laboratori”, prosegue Guarona, “Di solito si specializzano nella realizzazione di qualche prodotto. Hanno meno possibilità di rinnovarsi sul mercato”. Ma è tutta colpa dei cinesi, o dell’andamento del prezzo dell’oro, ormai arrivato alle stelle? Prendiamo il marchio “Di Valenza”, per esempio. Alcuni anni fa era stato creato il brand per caratterizzare i prodotti provenienti dalla città dell’oro. Un fiasco clamoroso. Le aziende che avevano aderito hanno ultimamente fatto l’appello: sono rimaste in 57, quasi la metà delle ditte che avevano deciso di appoggiare l’iniziativa.
Ma non è solo colpa delle imprese che chiudono: “Il marchio che non decolla è figlio dell’individualismo che regna in riva al Po”. Damiani, Re Carlo, Crivelli, Rota, Visconti, Pasquale Bruni. Tutti colossi del gioiello di lusso che non avrebbero interesse a “mescolarsi”. Conosciuti nel mondo con il loro marchio, pensano globale, dimenticandosi da dove arrivano. E anche i più piccoli, se possono, si fanno le scarpe a vicenda, invece di fare lobby. Il mandrogno medio direbbe che è il solito atteggiamento dei valenzani, orgogliosi e un po’ spacconi. Ma forse, di questi tempi, sarebbe meglio lasciare da parte l’orgoglio. Nell’ultima assemblea AOV – che conta oltre 400 associati – Bruno Guarona è stato riconfermato, anche perché era l’unico “candidato”. Nessuno, insomma, né un giovane manager valenzano né un esperto artigiano cresciuto a pane e gemme si sarebbe fatto avanti per prendere in mano la situazione. Guarona non conferma, ma se qualcuno avesse alzato la mano, avrebbe lasciato volentieri la poltrona ad un altro, dopo 13 anni di volontariato: la sua presidenza, infatti, non è retribuita. Stanco, demoralizzato, per descrivere il futuro del comparto, Guarona disegna un grande punto interrogativo sulla scrivania e ribadisce il concetto: “Più sei particolare, punti sul design innovativo, e più lavori.
La crisi economica porta ad una crisi di idee (essere originali costa, ndr): nelle vetrine dei gioiellieri si vedono anelli tutti uguali”. Il presidente della Camera di Commercio, Piero Martinotti, vuole dare un’interpretazione più ottimistica: “Il ridimensionamento quantitativo del settore non è detto sia del tutto negativo: la chiusura di imprese marginali, infatti, potrebbe favorire il recupero di produttività complessiva del comparto che, nel primo semestre dell’anno, ha manifestato qualche segnale di ripresa come dimostra anche l’andamento dell’export provinciale”. È un segnale di speranza, oltre che un incoraggiamento.