Milano, agosto 1808
In piazza Sant’Alessandro, prospiciente la chiesa omonima, il caldo si faceva già sentire, malgrado l’ora mattiniera. Il sole lambiva il lastricato, ripulito per l’occasione da ogni più piccolo ingombro, comprese le foglie approdatevi dalle vie circostanti, ma le vetrate della maestosa facciata ancora tacevano, in mancanza di luce, lo sfolgorio dei loro colori.
Gerolamo e Vittoria Trivulzio non avevano molta strada da percorrere per portare a battezzare la loro primogenita: bastava attraversare la piazza perché il loro palazzo si trovava proprio di fronte. E così fecero, comunque in carrozza, e riparando la loro piccola, annegata in un vestito bianco tutto pizzi e ricami, con una cuffietta appena appoggiata sui fitti capelli neri. Sul sagrato, il capannello di amici e parenti in attesa li circondò affettuosamente, ansioso di sbirciare le fattezze della nobilissima bambina.
“Ma siete sicuri di voler dare tutti questi nomi?” chiese il sacerdote perplesso e già sudato nei suoi paramenti sacri, dopo aver letto sulla carta intestata della marchesa l’elenco che gli era stato recapitato.“Ma certo, non si chiede nemmeno…” rispose per lei il marito, irritato da quella domanda inopportuna.
E mentre l’organo inondava di musica sublime lo spazio circostante, la grande cupola, le tele dell’Assunta, del Presepio, della Crocifissione, gli arredi barocchi, il fonte battesimale e gli astanti tutti, il prete pronunciava la solenne formule del rito:
“Ego baptezo te Maria Cristina Beatrice Teresa Barbara Leopolda Clotilde Melchiora Camilla Giulia Margherita Laura…”
La neonata, al contatto dell’acqua benedetta, si riscosse e spalancò sul mondo i suoi occhi: erano neri, grandi, espressivi. Tra i presenti corse un brivido di commossa ammirazione: “Oh….”
“Sarà una creatura molto viva e interessata al mondo, Gerolamo”
“Sarà bellissima, Vittoria, quasi quanto voi…”
Gli invitati non smettevano di lodare, prevedere, congetturare mentre i genitori non vedevano l’ora che la cerimonia finisse, per liberarsi degli abiti ingombranti, affidare la piccola alla balia per l’allattamento –anche se la neomamma sentiva il seno gonfio premerle nel corpetto- e rilassarsi nelle fresche sale del palazzo dove la festa, dopo la colazione, si sarebbe protratta per gran parte della giornata.
Nella gran tavola ricoperta di finissime tovaglie di Fiandra, dove i piatti e le tazze in porcellana si alternavano a minuscoli bouquets di margherite bianche e gialle, le signore dell’aristocrazia milanese, nei loro abiti estivi in stile impero e i capelli sollevati a sottolineare la bellezza del collo e del décolleté, si alternavano agli uomini, anch’essi in vestiti più leggeri e chiari del consueto, conversando animatamente con loro d’attualità e di pettegolezzi tra una tazza di cioccolata fumante e i pasticcini mandorlati:
“Questo Gioacchino Murat, oltre tutto, sembra proprio un bell’uomo, con quella capigliatura, con quei baffi… pare abbia molta fortuna con le donne…ha fatto una carriera! E pensare che è figlio di un albergatore e che dal seminario dove fu mandato venne allontanato in seguito a una rissa…ma è un soldato, un soldato nato, che disprezza il pericolo e ha coraggio da vendere…e infatti…da soldato a generale!”
“Vedremo che succederà ora, dopo che Giuseppe ha lasciato Napoli per il Regno di Spagna e il cognatino ha preso il suo posto… secondo me Giuseppe rimpiangerà la vista del Vesuvio, la Spagna è una bella rogna…ma è proprio un vulcano, questo Napoleone!”
“Certo che il blocco continentale è stato un vero disastro per lui: credeva di tagliare la gambe all’Inghilterra, invece ha fatto fare la penitenza alla Francia…ma lo sapete che per due anni anche i francesi ricchi e i nobili hanno sospirato caffè, zucchero e cotone? Con l’Inghilterra non ce la farà mai, se lo deve mettere in zucca! Non gli è riuscito nella campagna d’Egitto e non gli riuscirà mai…anzi, saranno proprio gli inglesi a rovinarlo…a finì cont el cü per tèrra”
“Ma non possiamo parlare solo di Napoleone…Vittoria, Gerolamo, scusateci, parliamo di voi e di questa splendida figlia! La prima di una lunga serie, vero?”
“Süca e melun la sò stagiun …se non di una lunga serie, almeno di qualche altro erede…speriamo, almeno” azzardò la padrona di casa, sorridente e maliziosa, posando lo sguardo sul marito che, a differenza di lei, manifestava un carattere malinconico e introverso, da alcuni scambiato per superbo ed eccentrico, poco incline al godimento dei piaceri della vita e delle sue ottime entrate, ma ossessivamente attento alla loro oculata amministrazione e a tenere viva la memoria e i meriti degli illustri avi.
“Cristina, Cristina, vieni, che facciamo un bel quadretto di questo giardino!” La bambina accolse l’invito con calma avvicinandosi alla sua maestra preferita, senza la timidezza e l’impaccio che di solito la dominavano. Aveva dei capelli nerissimi, lunghi e folti e un paio d’occhi che parevano puntare direttamente all’anima dell’interlocutore.
La veste lunga le impediva il libero movimento e lei allora se la teneva sollevata sulle caviglie, non solo mentre correva ma anche quando camminava. Stava per compiere otto anni e già sapeva molto: le piaceva imparare e non ne era mai sazia. Riusciva particolarmente nello studio della lingua straniera, il francese, che sentiva suo al pari dell’italiano; non le piaceva invece usare il dialetto milanese, che era abituale anche presso famiglie prestigiose come la sua, in situazioni non formali. Le pareva di chiudersi troppo nel guscio della sua città mentre lo spazio a cui lei aspirava era ben più ampio: comprendeva l’Italia intera, l’Europa, forse il mondo.
Apprendendo la storia e la geografia, rifletteva sul passato e si chiedeva perché, dopo un destino tanto bello e importante quale era stato quello di Roma, ora l’Italia non contasse nulla, fosse una semplice espressione geografica, come aveva detto Metternich l’anno prima, aprendo il congresso di Vienna –lo sapeva perché ne avevano parlato tutti in famiglia, disapprovando severamente questa frase del primo ministro austriaco- e si domandava anche per quale motivo, dopo Napoleone, che ora passeggiava come un leone in gabbia su e giù per l’isola di Sant’Elena, adesso i milanesi dovessero servire gli austriaci, che erano peggio di lui.
La maestra Ernesta, seppure di disegno e di canto, accendeva il suo amore per l’Italia più dei maestri di storia e d’italiano; era lei che le raccontava dello scempio del Belpaese, come lo chiamava, e ci piangeva sopra, abbracciandola. Come avrebbe fatto senza?
La conosceva già da quattro anni, quando la mamma l’aveva assunta per farsi aiutare dopo la morte del babbo. Un periodo nerissimo, per lei, quello: era regredita, dimagrita, diventata cagionevole di salute e più malinconica che mai. La morte aveva fatto un ingresso trionfale nel suo bel palazzo, portandosi via un padre, un uomo di trentadue anni, e lei ne era rimasta sconvolta. La chiusura, l’introversione del suo carattere avevano avuto il sopravvento: si metteva a piangere già intuendo che nel salotto da ricevimento, con le sue amiche, la mamma l’avrebbe invitata a parlare e scappava via, vivendo il resto della giornata tra sensi di colpa e timore delle sgridate serali.
Per fortuna, appena dopo il tempo del lutto stretto, c’era stato un avvenimento lieto: un nuovo matrimonio di sua madre. Il suo patrigno si chiamava Alessandro Visconti d’Aragona ed era davvero buono con lei. E così, negli ultimi anni, tanta vita aveva compensato l’arroganza della morte. Le erano nate già due sorelle e la mamma era di nuovo incinta.
Lei accoglieva con gioia la notizia di quelle nascite perché grande era stata la sua esperienza di vuoto e di solitudine e pauroso il ricordo della morsa di tristezza che aveva accompagnato la scomparsa del babbo.
Finché quel signore, il futuro patrigno, non aveva cominciato a frequentare la mamma, a inviarle cesti coloratissimi di fiori e di frutta e certi minuscoli pacchetti di gioielleria che svelavano, oltre la carta velina, i loro tesori: un brillante, una collana di perle, un’acquamarina incastonata in una conchiglia d’oro bianco.
La bambina vedeva la madre arrossire di piacere nel ricevere quei regali, condividendo con lei la gioia infantile della sorpresa mentre li scartavano insieme; poi l’aiutava ad indossarli e sorrideva guardando riflessa nello specchio l’immagine finalmente serena di quella giovane donna di nuovo incantata dall’amore. Aveva solo ventuno anni sua madre e lei, sebbene piccolina, intuiva che era giusto così.
La osservava compiaciuta rifiorire nel fisico e nell’umore, con lo sguardo che le si accendeva al suono di certi passi e la voglia di cantare mentre si pettinava e si vestiva.
Il fidanzamento con Alessandro era stato brevissimo e sobrio il matrimonio, perché la data del funerale di Vittorio era vicina.
Così lei, bambina di non ancora cinque anni, era approdata di nuovo alla spensieratezza dell’infanzia: al gioco della palla, delle bambole, della ruota, che nei parchi pubblici l’avvicinavano, seppur con qualche titubanza, agli altri bambini.
E poi, la sera, nella sua cameretta foderata di taffettà rosarancio, c’era la delizia delle fiabe, che adorava, specialmente quando a leggergliele non era la tata di turno, ma la mamma in persona che, lasciando momentaneamente i suoi ospiti, saliva a darle il bacio della buonanotte e divideva con lei qualche pagina del suo libro preferito.Per questo, quando, intorno ai sei anni, si decisero a insegnarle la scrittura e la lettura, lei sentì di avere tra le mani la chiave di un tesoro incommensurabile con cui le si aprivano prospettive sconfinate: avrebbe potuto immergersi nelle vite, nelle avventure, nei sogni, nei progetti di cento, mille creature; avrebbe potuto viaggiare in lungo e in largo per il mondo e oltre, nell’universo infinito; avrebbe potuto tenere un diario, scrivere i suoi pensieri, esprimere i sentimenti che traboccavano dal suo cuore, inventare storie e personaggi, scrivere poesie e filastrocche. Che felicità! Che prospettiva di gioia presente e futura!
Prima di addormentarsi, riflettendo sui posti che le persone occupavano nel suo cuore, al secondo posto, dopo la mamma, metteva sicuramente Ernesta; le dispiaceva un po’ collocare dopo i fratelli e il nuovo padre ma era sicura della graduatoria perché lei, senza la sua cara maestra di canto e di disegno, si sarebbe sentita nuovamente persa.
Maria Gisella Catuogno/Cap.I
Le immagini ritraggono:
Cristina Trivulzio (nel ritratto di Hayez); i genitori Gerolamo e Vottoria; Cristina adolescente; Ernesta Bisi e la sua numerosa famiglia; antichi giochi di bambini.