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Cristo si è fermato a Eboli – L’odio triste e antico

Creato il 20 febbraio 2014 da Loredana Gasparri
Cristo si è fermato a Eboli – L’odio triste e anticoIl titolo di questo libro, terza tappa del Giro Letterario d'Italia, mi ha sempre incuriosito. Spesso l’ho sentito citare, anche in qualche film, con scherno e disprezzo verso il cosiddetto “problema meridionale”, chiamato anche il Mezzogiorno e in altri modi molto meno aulici, soprattutto da quando è emersa una certa corrente di pensiero politico (chiamiamola così, manteniamo un certo decoro nel blog). Alla spiegazione del titolo Carlo Levi dedica due pagine dense iniziali, ma la vera comprensione di queste sue parole si raggiunge spingendosi all’interno di questo romanzo, che io ho considerato agevole e difficile, attraente e noioso, magico e piatto, ottuso e intelligente, leggero e severo, ricco e desolante.  “Noi non siamo cristiani, - essi dicono [i contadini lucani], - Cristo si è fermato a Eboli - . Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo: e la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere, nelle loro bocche non è forse nulla più che l’espressione di uno sconsolato complesso di inferiorità. Noi non siamo cristiani, non siamo uomini, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancora meno che le bestie, i fruschi, i frusculicchi, che vivono la loro vita diabolica o angelica, perché noi dobbiamo invece subire il mondo dei cristiani, che sono al di là dall’orizzonte, e sopportarne il peso e il confronto. Ma la frase ha un senso molto più profondo , che, come sempre, nei modi simbolici, è quello letterale. Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l’anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia. [...] Cristo è sceso nell’inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell’eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore  terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli. “ (Cristo si è fermato a Eboli, pagg.3-4, Einaudi). Questa è la traccia e la mappa per addentrarsi nel mondo di questo romanzo, vera e propria esplorazione, fisica e umana. Carlo Levi è un laureato in medicina, torinese, che si trova a vivere in quel tempo difficoltoso e protervo che era il fascismo e in particolare gli anni della Guerra d’Africa. Gli italiani si stavano infilando in quell’avventura bizzarra che era il colonialismo di un continente  sconosciuto, credendo forse di imitare inglesi e francesi che avevano già costruito i loro imperi economici in altre terre, ma sotto l’euforia e la propaganda, si sente già l’incredulità di un tipico atteggiamento italico: “lo faccio ma io non ci credo!” Si vede mandare al confino in Lucania, a Gagliano, di punto in bianco. Il regime, per qualche sua interpretazione bizzarra, non lo gradisce e lo seppellisce in mezzo al nulla. “A Roma ti vogliono male”, commentano i notabili del paese, con quell’atteggiamento di odio impotente e semi-rassegnato che li caratterizza così profondamente. Lungi dall’esserne colpito o disperato, o sentirsi offeso o degradato, Carlo (don Carlo, come viene chiamato qui)si dispone a vivere la propria vita, concentrandosi su una delle sue passioni principali, la pittura. In quel mondo lento, estraneo e completamente chiuso, lontano dai centri nevralgici e dalle manifestazioni del regime, si concentra soprattutto sulla pittura. Ed è proprio l’abitudine ai pennelli che lo porta ad osservare da vicino e ad esplorare le caratteristiche di un mondo contadino selvaggio e arido nell’aspetto e nell’animo delle persone. Essendo medico, per quanto di scarsa esperienza e applicazione, viene ricercato dai contadini, convinti che lui, il dio straniero approdato alle loro rive, sia l’unico in grado di aiutarli e di recare conforto alle loro vite perennemente offese e raschiate dai signorotti del paese che li vessano e li disprezzano in ogni modo, dallo “Stato”, entità lontana e minacciosa, grande mostro sadico e succhia soldi. Non c’è molta azione nella vita di un confinato, così come in questo paesetto arroccato su argille e rocce alte e pericolanti, dove l’immobilismo e il senso d’impotenza che scatena odi mal repressi avviluppa e fa ammalare le persone, e prosciuga seccandoli i paesaggi. Povertà, immobilismo, scarsa capacità di reazione e una sorta di paganesimo spirituale, guidano soffocando le interazioni di queste persone, che più che vivere trascinano le loro esistenze odiando in catene. Cosa odiano? La vita, lo Stato, gli altri, se stessi. Odiano, si lamentano, ma sopportano stoici. Resistono per definizione, reprimono i sentimenti, aggirano i problemi, ma sono rispettosi, hanno forte il senso del comportamento corretto, dell’ossequio e dell’ammirazione verso chi considerano migliore di loro. Come Verga, Levi ci immerge nella polvere di Gagliano e ci presenta ad uno ad uno, con precisione, decine di personaggi, che si avvicendano sul palco con i loro abiti stracciati, i modi servili o tranquilli, i ghigni di degnazione, l’indolenza acquisita alle spalle altrui, e noi li guardiamo con stupore, rabbia, compatimento, derisione, ma nessuno di loro ci lascia indifferenti. Ci abituiamo all’atmosfera stregonesca evocata da certe donne, chiamate apertamente streghe, per l’animalità ritrosa delle loro azioni, e consideriamo normale che in certe grotte si agitino spiritelli allegri e terribilmente dispettosi come i “monachicchi”. Ho ascoltato in silenzio tutte le loro storie, e la voce dolce e obiettiva di don Carlo che descrive senza mai giudicare. Mi sono arrabbiata io di fronte all’incredulità e all’ignoranza altrui, davanti ai gravi danni provocati ai danni dei meno furbi o dei più deboli, mentre l’autore compativa senza essere pesante o paternalista. Quando, alla fine del libro, una macchina arriva per portarlo via, e ho chiuso le pagine, ho sentito un groppo in gola. Non volevo lasciare Gagliano, per quanto desolante e arretrato fosse. Cosa ne sarà ora, di tutti loro, lasciati ancora una volta a se stessi?

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