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Critica alla critica: C’era una volta in America (1984)

Creato il 13 luglio 2011 da Soloparolesparse

Ampia rassegna dell’amico Evit a proposito delle critiche a C’era una volta in America di Sergio Leone.

Critica alla critica: C’era una volta in America (1984)

“Gangster story, all’insegna di Proust, che per struttura è un labirinto alla borghese.” (Laura e Morando Morandini, Telesette)

Un labirinto alla borghese? Nonostante mi sfugga il significato di questa affermazione, come si può ridurre l’intero capolavoro di “C’era Una Volta in America” ad una riga di critica?
Quel “all’insegna di Proust” si riferisce alla frase pronunciata da De Niro quando gli viene chiesto che cosa abbia fatto in tutti quegli anni “Sono andato a letto presto”. Una frase simile è l’incipit dell’opera “Alla Ricerca del Tempo Perduto” di Proust a cui Leone ha voluto fare un omaggio. Che questa sia la chiave di lettura dell’intero film per i Morandini mi lascia un po’ sbalordito. A volerlo si può trovare Proust in tantissimi altri film.

“Questo di Leone sarebbe un ottimo film, almeno per la ricostruzione ambientale: peccato per l’eccessiva violenza”. (“Famiglia tv”)

Eh si, per “FAMIGLIA TV” è decisamente un peccato per l’eccessiva violenza. Speravano fosse un film per famiglie benpensanti.

La prossima la copio “per cultura” ma non l’ho letta perchè pedissequa e ridondante (a meno che non stiate preparando una tesi universitaria e vi serva qualche spunto), non la sto neanche a commentare (uno fa prima a vedersi il film)… opera ovviamente firmata da “Segnalazioni Cinematografiche” che ha approfittato dell’occasione per produrre una specie di tema da scuola superiore, o un pamphlet, ridicolo per l’estensione:

“Sol che presti la dovuta attenzione a quel “Cera una volta…”, lo spettatore sarà assolutamente travolto: non assisterà, cioè e come al solito, ad un film, ma ne diventerà poco a poco ”complice”. Benché violenze e brutalità non manchino, egli si abbandonerà a tutte le suggestioni estetiche di una siffatta complicità e questo per l’unico motivo che “C’era una volta in America” è solo cinema e grande cinema, quale rarissimamente è dato di ammirare. In tre ore e quaranta di proiezione sono riassunti, a quanto si sa, tredici anni di studi, di preparazione, di fatiche e di impegno nelle persona del regista Sergio Leone (superfluo parlare qui di lui o delle sue opere precedenti) e tutto ciò sulla base, sullo spunto di un romanzo autobiografico di David Aaronson (“A mano armata”), piccolo gangster ebreo di nome Harry Grey, attivo all’incirca 60 anni or sono. In Leone, la cronaca anche la più cruda e realistica è trasformata in favola. Il film è la felice reinvenzione, precisa e al contempo sfumata pur nelle mille sue sfaccettature; è, soprattutto, uno stupefacente viaggio nella memoria, una ricerca delle radici, che non a caso muove dalle ombre cinesi sul piccolo schermo di una fumeria d’oppio e dalle “rêveries” cui là ci si può abbandonare, per attingere a tutte le seduzioni dell’onirico, fino alla non occasionale localizzazione dell’ultimo fotogramma (con il volto deluso ed amaro di un Noodles perdente, ma ancora sorridente). II film è altresì una irruente cavalcata, in cui il senso del tempo, che tutto determina, smussa e muta, assegna alle immagini il giusto ritmo e dà un significato profondo ad ogni accadimento, per minimo che esso sia. Ora, è appunto questo trascorrere e sovrapporsi di eventi (che il frequente ricorso al “flash-back” accentua e convalida) a donare al lavoro di Leone la sua principale connotazione temporale: dal 1922 – data delle prime scorribande degli adolescenti Noodles, Max, Patsy e Cockeye, più il piccolo Dominic, (che muore presto, freddato sul selciato nelle vicinanze del ponte di Brooklyn) – al 1935 (fine del proibizionismo), fino al 1968, che segna la riapparizione di Noodles dal buio dell’anonimato e quella del suo ex-amico Max. Sono gli anni della violenza più spietata, dei guadagni illeciti ma più redditizi; gli anni del gangsterismo più cruento, mille volte visto sullo schermo, delle bande e dei massacri in realtà verificatisi, ma qui reinventati e favoleggiati, con una perfetta (ma non certo indulgente) approvazione di quei miti tristi e sanguinari, nonché con una incredibile vitalità di espressione cinematografica. Malgrado il ribollire della materia, (e questo può sembrare anche paradossale), perfino con qualche vena di poesia. Tema non facile, dunque, ma affrontato quasi con un compito lirico, marcato da una sconsolata amarezza. Come a dire che, in fondo all’itinerario di quella adolescenza non protetta e sorretta e di quella maturità tanto ricca, quanta cinica e feroce, c’e solo la morte o, per chi ha fatto, magari per pigrizia o paura, una scelta, prima della morte il rifugio nel sogno e la evocazione di una perduta stagione. A parte questi due assunti (quello, in sostanza, cronachistico e quello della memoria), l’altro tema essenziale e punto di forza del film di Leone sta nella salda e sincera amicizia, anche se competitiva, fra Noodles e Max: protagonista esitante, il primo, antagonista deciso, l’altro; l’uno senza dubbio anche violento all’occorrenza, ma in conclusione più duttile e sognatore, l’altro di durezza crudele, più avido e concreto. Lo strano binomio costituisce il perno umano del film, con mille risvolti psicologici delineati e approfonditi fino alle minuzie (citiamo la sequenza in cui, nel silenzio del “clan” riunito, il riflessivo Noodles rimescola il caffè nella tazzina con calma irritante: un momento di tensione quasi intollerabile), con impeti di generosa e affettuosa solidarietà, oppure qualche riservato sorriso, fino alla sorpresa (senz’altro un po’ costruita) del “redde rationem” finale, dopo 30 anni di intensi rapporti e, cioè, il tradimento a fin di bene di Noodles, la inopinata riapparizione di Max, e così via di seguito. Due personaggi che, nel quadro generale (l’ambiente, il quartiere ebraico di New York, la stordita gente bene targata 1930, i mafiosi, la polizia corrotta ecc.) hanno uno spessore ed una forza d’impatto difficilmente comparabili con altri analoghi. Così come ha fatto in ordine al cinquantennio di vita americana ed al problema del gangsterismo di medio e piccolo cabotaggio, dei nostri due “sub eroi” Leone non racconta; se mai li celebra e commemora: che, se nulla possono avere di eroico, il viaggio nella memoria li colloca, attraverso il filtro delle ricordanze, in quel mondo di avventure, di sparatorie e di sangue, lumeggiandone i tratti senza alcun compiacimento, ma con gli intelligenti intenti di una cronaca trasfigurata. Rischio grandissimo ed impegno del pari arduo ma, lo si ripete, anche grande cinema. Il personaggio di Max – il più “cattivo” – ha la sua validità e ragione: gli dà prestigio l’ottimo James Wood (era il marito di Merryl Streep in “Olocausto”), leale all’inizio e frodatore in seguito (frodatore “di 35 anni di vita” come egli stesso ammette di fronte all’amico). Una interpretazione, la sua, ed una coerenza quanto mai asciutte e vibranti. Ma è Robert De Niro il magnifico Noodles, in fondo un “travet” del crimine, spesso un irresoluto, forse più succubo della violenza, che intimamente perverso: uno sconfitto gia dalla linea di partenza. De Niro ha scolpito a tutto tondo un personaggio maiuscolo, con i tocchi di un’acuta interpretazione, con eccellente dosaggio di ogni suo gesto e silenzio ed in incessante aderenza, non solo a quanto la sceneggiatura gli richiedeva, ma al carattere stesso dell’uomo-Noodles, al suo girovagare nei vicoli dell’infanzia o nella New York notturna. Domina senz’altro in Noodles il pungente ricordo di Deborah, che lo condizionerà per tutta la vita: dalla adolescente spiata da un pertugio nel muro mentre danza, alla bella creatura ormai arrivata al successo come “star”. A Deborah (che deliziosamente recitava, interpolandolo con arguzia, il “Cantico dei Cantici” al suo attonito e goffo ammiratore), Noodles offrirà a suo tempo, e proprio per strafare, una cena addirittura requisendo per loro due soli l’intera sala-restaurant di un prestigioso e scintillante albergo. Tutto per lei, la bambina-sogno, la donna-idolo, che rifiuta peraltro il suo amore (e per questo egli la violenterà in un’auto: brutale, assurda vendetta di un uomo, condannato fin dai suoi quindici anni ad essere valutato, proprio da Deborah, sciatto ed inetto e che, tuttavia, per altri trenta continuerà a credere, amandola, nella sposa-bambina del cantico biblico). Pur nella sua costante alterigia, nella sua stessa volontà di fuggire dal ghetto e dalla povertà, per ammantarsi dei lustrini della raffinatezza e del successo, anche Deborah (altra citazione, nel film, di “quella” America) fa parte dell’incantato paradiso perduto, di quel viaggio che il deluso Noodles non vorrà interrompere mai: questo fino alla morte, di cui il volto della ormai matura donna, sparito sotto la biacca dell’artista, pare un gelido presagio. Malgrado tutto, peraltro, di fronte ad una Deborah perduta e ad un Max canuto e terrorizzato, Noodles non è sconfitto del tutto e lo sente. E’ un perdente, sì, ma il valore che egli continua ad attribuire all’amicizia è assoluto e totale. In più, è ancora vivo e libero: libero di sognare, di concedersi un po’ d’oppio per fantasticare su di una stagione irripetibile, sulla fioritura di un tenero amore e su di una amicizia che, nata nei vicoli miserabili, egli si rifiuta comunque di cancellare con un crimine. L’ultimo e, per giunta, pagato. I limiti che a queste semplici note sono imposti impediscono di rilevare tutti i meriti che alla regia di Leone debbono essere attribuiti, per rigore, ampiezza di respiro e felicità di scelte, per la intelligente concatenazione degli eventi, nonché per la maestria con cui egli ha condotto in porto – dopo così prolungata navigazione – il suo splendido vascello ed il bravo equipaggio che è a bordo. E troppo spazio richiederebbe il parlare di talune sequenze (basterà citarle: il ragazzetto accucciato su di uno scalino davanti alla porta dell’amato bene, che assapora e poi divora il dolce comprato per lei; quella di Noodles e Deborah adolescenti, con relativa lettura del “Cantico dei Cantici”; o la irruzione della banda nella “nursery” dell’ospedale, tutta un tripudio di trine candide e un pigolio di voci neonate: una vera chicca!). Ricordiamo invece, e con riconoscente ammirazione, la eccezionale resa della fotografia, con cui Tonino Delli Colli ci ha dato una New York insolita, squisitamente datata, con scorci, tagli e colori di assoluta qualità; nonché la puntigliosa accuratezza nella ricostruzione del quartiere ebraico, con una infinità di gustosi dettagli, fin nel ritratti e negli oggetti di uso comune. Azzeccatissimi e perfetti, nello stile dei vari decenni, sia l’arredamento, che gli abiti: soprattutto quei bianchi abiti femminili, di moda nel ’20 e nel ’30 (le bionde donne di questo film – per trucco, pettinature, scarpe e abiti da sera – sembrano uscite a frotte dalle pagine di Fitzgerald). Quanto alla colonna sonora, Ennio Morricone ha piluccato con abile scelta nella vigna dei più elettrizzanti motivi, che quegli anni americani (non solo di “gangster!”) hanno consegnato alla nostra cultura: riascolterete così, a tempo e luogo (ed è un gran bel sentire, per la verità), canzoni celebri (Berlin, Kern, Gershiwn, perfino la indimenticata “Amapola”, al massimo del “ralenti”). Di suo, e da par suo, Morricone ha dato al film un bellissimo motivo, di una qualche ascendenza malheriana, il quale simboleggia e riassume, intriso com’e di dolcezza, ma anche di nostalgiche effusioni, tutto ciò che nel film è memoria, tenerezza e rimpianto. Un motivo che riaffiora, si fa vivo e toccante, come un monito o un richiamo. O, fors’anche come un baleno di speranza.” (Segnalazioni cinematografiche, vol. 98, 1985)

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