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CROAZIA: Ante Gotovina e la pulizia etnica. Un velo su ciò che veramente è stato

Creato il 18 novembre 2012 da Eastjournal @EaSTJournal

Posted 18 novembre 2012 in Balcani Occidentali, Croazia with 0 Comments
di Filip Stefanović

Oluja

Etničko čišćenje. Suona così, in serbo-croato, pulizia etnica. Un termine tecnico, militare, coniato proprio dall’Esercito Jugoslavo, serbo-montenegrino, per designare la rimozione di croati e bosniaci dai territori conquistati. David Forsythe, che nel primo volume della sua Enciclopedia dei diritti umani traccia l’origine della parola, sottolinea come la pratica non sia certo nuova, risalente al conflitto balcanico, ma che esempi di pulizia etnica si ritrovano nel passato remoto: gli ebrei di Spagna nel 1492, gli ugonotti francesi nel 1685, gli indiani d’America nel XIX secolo, l’editto di Losanna del 1923 per lo smistamento di greci e turchi verso le rispettive nazioni. Etničko čišćenje, quello di Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia. Etničko čišćenje, siglato da Luigi XIV con l’editto di Fontainebleau. Etničko čišćenje, dopo Losanna.

Nella Krajina croata, invece? Secondo il censimento del 1991, il 52,3% della popolazione, quasi 250.000 persone, era di nazionalità serba. L’Operazione Tempesta avrebbe portato all’esodo di, plausibilmente, 150-200.000 di queste. Dal 2000 a oggi, 40.000 serbi sarebbero rientrati, in quella che è ormai una zona depressa e spopolata della Croazia. Fu pulizia etnica, quella operata dai 150.000 soldati dell’Esercito Croato (HV), sotto la guida di Ante Gotovina? Come stabilirlo?

Il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia (ICTY), che ha condannato in primo grado Gotovina a ventiquattro anni di carcere e Mladen Markač, allora a capo della Polizia Speciale croata, a diciotto, per scagionarli entrambi, questo venerdì, in appello, da tutte le imputazioni, ha ritenuto di applicare un metodo scientifico per stabilire se di pulizia etnica si trattò.

L’analisi si basa sugli eventi occorsi in quattro municipalità, Knin, Benkovac, Obrovac e Gračac, nell’agosto del 1995. Le  città vennero prese d’assalto a colpi d’artiglieria dalle forze croate. L’accusa, nel processo Gotovina-Markač, ha voluto dimostrare che tali attacchi non rientrarono negli usi di guerra, ma che furono deliberatamente e indiscriminatamente utilizzati contro la popolazione civile, serba, per indurla ad abbandonare il posto. A questo fine, il procuratore si è basato su un’analisi d’impatto dei colpi sparati, localizzando gli obiettivi militari sensibili e stabilendo, attorno ad essi, un margine d’errore di 200 metri, sentite testimonianze di chi c’era sulle condizioni di vento e sulla temperatura, ritenuto “accettabile”.

In parole povere, ogni granata esplosa entro 200 metri da un obiettivo strategico militare rientrerebbe tra gli usi di guerra, oltre i quali sarebbe un colpo aleatorio atto semplicemente a creare panico, morte e distruzione fuori dalle necessità di conquista della roccaforte e del territorio. Oltre i 200 metri, etničko čišćenje. La corte d’appello, nello specifico tre giudici su cinque, ha invece ritenuto che il giudizio espresso nel primo processo fosse infondato, perché poco chiari i criteri secondo i quali è stato fissato proprio a 200 metri il confine tra semplice atto e crimine di guerra. Perché non 100, o 500? Pertanto, vista la mancanza di prove a dimostrare che vi fosse stato, prima, un piano premeditato dall’alto comando per ripulire la Krajina dalla popolazione serba, e, dopo, un controllo inefficace e carenza di disciplina nel guidare le truppe all’attacco, si è giunti all’assoluzione.

Eppure, ai serbi non è bastato sapere che le granate piovevano entro 200 metri da obiettivi puramente militari: 200.000 di loro si sono sentiti, personalmente, obiettivi strategici, e come tali sono fuggiti. Hanno lasciato le loro case, dopo anni di guerra, e lenti, sui loro trattori, sui carri, con le Zastava 750 e camion stipati di valigie, di piccolo mobilio, si sono incolonnati verso la Serbia, come se la Serbia li volesse davvero accogliere. Non sono più tornati. Dopo quasi vent’anni, che senso avrebbe? O troppo vecchi, o troppo giovani, in un altro mondo, sconfitti, senza prospettive. In Serbia, come in Croazia. A volte non basta poter tornare, bisogna volerlo. Che il Tribunale dell’Aja la giudichi pulizia etnica, o meno, è esattamente ciò che avvenne. In Croazia, come in Bosnia, e su ogni etnia.

I croati, oggi, alle porte dell’Unione Europea, possono inneggiare orgogliosi e festanti al ritorno di Ante, eroe popolare della loro Guerra Patriottica, puramente difensiva: i profughi son profughi, i morti sono morti, i dispersi, dispersi. Nessun tribunale internazionale ridarà giustizia a quelle persone, nessuna sentenza esterna cicatrizzerà vecchie ferite, come difficilmente ne aprirà di nuove. Solo, ancora, la comprensione di ciò che veramente è stato appare lontana e difficile, e la certezza che non si ripeterà, più una speranza che un traguardo.

A che cosa, allora, i tribunali?

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Tags: Ante Gotovina, crimini di guerra, Croazia, Filip Stefanović, ICTY, Jugoslavia, Knin, krajina, Mladen Markač, oluja, operazione tempesta, pulizia etnica, Tribunale dell'Aja, tribunale internazionale Categories: Balcani Occidentali, Croazia


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