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Croce, Gentile ed il mito fascista nel carteggio Croce-Vossler

Creato il 19 luglio 2010 da Chiaramarina

1.2 Croce, Gentile ed il mito fascista

Bodei, come Croce, ritiene che nella storia ci siano periodi in cui il seme della follia intacca la mente umana. A tale proposito egli scrive che: «da più parti la cultura del Novecento sembra rinunciare alla razionalità in nome del mito»[1]. Un mito che esalta una falsa perfezione, che inneggia al darwinismo sociale, che abbatte gli ideali di libertà, che strumentalizza la scienza, la cultura, la religione e quanto altro per compiere la celebrazione del regime. «Spesso il mito, imposto con ogni mezzo, è utilizzato per rafforzare o addirittura sostituire, quando manca, la vaga e lacunosa filosofia di base; o per mascherare eventuali interessi contrastanti protetti»[2]. Del grande mito fascista furono vittime non solo i comuni cittadini ma anche, com’è noto, innumerevoli intellettuali. Ad esempio, è noto che lo schieramento di Giovanni Gentile in favore del fascismo provocò la rottura del rapporto d’amicizia con Croce. Secondo Vossler la rigidità del carattere di Gentile e la sua filosofia assai poco concreta lo rendevano particolarmente esposto al fascino dell’ideologia fascista.

Se nel pensiero del Gentile si annunzia, come sembra, qualcosa di simile, se cioè vi è veramente misticismo, temo che discussioni ulteriori tra me e lui non possano aver altra fine che quella di argomentazioni ad nomine, quali del resto si annunzian di già, specialmente nel tuo primo attacco. Ci sarebbe, insomma, il pericolo di disgusti personali che potrebbero portare il freddo nella vostra buona e lunga amicizia. Questo mi farebbe pena. Per quanto io conosca il Gentile, mi pare che l’identità di pensiero con la vita tanto pratica quanto teorica, sia per lui qualche cosa di certo, quindi indiscutibile. Di questa fede tutta la sua vita è informata. Se no, come avrebbe egli, così esatto e prudente nella scienza, potuto tirare avanti così disavveduto ed eroicamente imprudente nelle faccende pratiche?[3].

Del resto, Emma Giammattei ricorda che «Croce dichiara di continuo la propria polemica refrattarietà alla “fissazione metafisica” – come la definisce ironicamente proprio a Gentile»[4].  Dunque fu proprio l’avvento del fascismo a segnare il progressivo distacco di Croce da Gentile, o, meglio, di Gentile da Croce: l’accentuato contrasto o atteggiamento critico di Gentile verso il pensiero di Croce e, più ancora, la diversa posizione da essi assunta nei confronti della dittatura fascista valsero a cambiare i loro rapporti di sincera amicizia in rapporti d’irriconciliabile inimicizia. Se, infatti, Gentile aderì pienamente al nuovo regime dittatoriale e soffocatore di ogni libertà e se ne fece anzi propugnatore, Croce, dopo un periodo d’incertezza e di cautissima adesione, si scostò da esso e decisamente gli si oppose. La notizia della loro polemica fece il giro dell’Europa.

Ora la fama delle tue discussioni col Gentile è giunta fino a qui. Me ne parlarono due settimane fa due giovani italiani, che stanno qui per studiare il tedesco. Li pregai di farmi avere i rispettivi numeri, ma non li ebbi mai. Se ti resta qualche copia, mandamene una, perché la cosa mi interessa moltissimo e mi dispiace di aver perduto un poco il contatto delle cose italiane, specialmente ora che sto preparando una serie di conferenze sulla letteratura italiana moderna che dovrò fare a Francoforte. Spero che riescano abbastanza buone per poterle dopo pubblicarle. […] Vorrei concludere queste conferenze con una parola sulla filosofia attuale in Italia, per cui mandami quella tua discussione col Gentile[5].

I rapporti tra Croce e Gentile si inclinarono non solo per ragioni politiche, ma soprattutto perché le loro erano due filosofie diverse, non tanto e non solo nell’impianto filosofico, quanto nel modo di concepire la società e lo Stato. Esso, secondo Croce, doveva basarsi non su un’idea astratta, ma sulla realtà concreta, fatta di individui che con le proprie azioni stabiliscono e producono leggi, istituzioni, strutture, usi che riflettono le loro volontà. In questa ottica lo Stato diventava il prodotto delle azioni di un insieme di persone, ed era dato dalle mediazioni delle forze che regolano la sua andatura, ovvero, la libertà e l’autorità. La concezione filosofica della libertà crociana non accetta la distinzione delle sfere di potere che competono all’individuo o allo Stato perché tale distinzione è meramente empirica e attiene quindi alla disciplina del diritto. Croce  ha il merito di aver abbozzato la soluzione al problema della libertà, presentandola come un nuovo universale sentimento e di aver soprattutto compreso che essa è etica e non edonistica in quanto si pone come fine il perfezionamento morale degli uomini e non la loro sola felicità.  Perché gli individui siano in grado di esprimere al meglio le proprie potenzialità e di metterle al servizio della società è necessario non solo che le forze che governano lo Stato siano in perfetto equilibrio, ma che esso non abbia il potere di «circoscrivere le azioni politiche»[6] ne tantomeno, continuò Croce, di valere come «contrapposto delle azioni singole, come entità che abbia una propria vita oltre o disopra degli individui»[7]. Egli osservò che esiste uno scarto tra l’essere libero di fare qualcosa ed essere capace di fare qualcosa: si può infatti essere liberi di compiere una scelta, un’azione, ma se non si era capaci, se non ci sono le condizioni necessarie per attuare realmente i propri propositi è probabile che la nostra non-capacità diventi una non-libertà . Ciò posto, è lo Stato a dover essere il garante di tali condizioni. Croce, come Tocqueville, sosteneva che il regime democratico fosse quello più predisposto al pensiero liberale, ma che presentasse anche una serie di problemi che dovevano essere risolti dai politici.

Il liberalismo sembra talora confluire col democratismo e talora divergerne fortemente e contrastarlo: lo contrasta in quanto quello, idoleggiando l’eguaglianza concepita in modo estrinseco e meccanico, si avvia, voglia o no, all’autoritarismo; […]  ma sembra confluire con esso in quanto il democratismo si oppone ad altre forme di autorità e, in siffatto contegno, è liberale e può porgere braccio di alleato[8].

A suo avviso, le moderne società democratico – liberali, pur con i loro limiti e le permanenti disuguaglianze sociali, hanno dimostrato che è possibile, anche se in maniera imperfetta, coniugare i diritti civili con i diritti sociali. In ogni tipo di società nessun individuo è totalmente libero rispetto agli altri e nessuna sanzione gli potrà mai impedire in assoluto di compiere una qualsivoglia azione. Invece, per Gentile, dinanzi a questo grande avvento delle masse, il problema è di creare uno Stato inteso come comunità vivente, incentrato fondamentalmente sull’idea di sacrificio e di dovere.

Lo stato, come oggi dovremmo cominciare a saper bene tutti, non è inter homines, ma in interiore homine. Non è quello che vediamo sopra di noi; ma quello che realizziamo dentro di noi, con l’opera nostra, di tutti i giorni e di tutti gli istanti; non soltanto entrando in rapporto con gli altri, ma anche semplicemente pensando, e creando col pensiero una realtà, un movimento spirituale, che prima o poi influirà sull’esterno, modificandolo[9].

Infatti, come sarà posto in evidenza da considerazioni che saranno date in seguito, caratteristica peculiare del totalitarismo è l’identificazione fra società e Stato. Tenendo presente l’evoluzione del rapporto Stato-Società Carl Schmitt prevede addirittura un passaggio obbligatorio dovuto allo sviluppo dialettico, attraverso lo Stato assoluto del XVII e XVIII secolo allo Stato liberale del XIX secolo e da questo allo Stato totalitario che identifica lo stato con la società[10]. Maggi ricorda a questo proposito come nella Politica in nuce del 1924 sia esplicito il rifiuto di ogni “delirio statale” di marca gentiliana, a favore invece di quella vita morale che trabocca continuamente dai limiti imposti dallo Stato; e la fiducia crociana nell’operare della libertà, anche in anni in cui l’ideologia appare trionfante, risulta preziosissima nel momento del crollo del regime, allorché essa contribuisce a garantire la continuità dell’identità nazionale, sia sul piano istituzionale, che su
quello più profondo della tradizione culturale. Quella di Croce è dunque, secondo Maggi, una filosofia intrinsecamente politica[11], che senza cedere alla tentazione di farsi teoria dell’azione si configura però come chiave per un’interazione feconda con la realtà. In questo senso egli considera inaccettabile l’immagine del Croce olimpico ed inerte diffusa nel dopoguerra e la riconduce ad un fortunato ma pericoloso luogo comune del Novecento italiano, che dal velleitarismo della «Voce» è giunto, attraverso la mediazione di Gentile, fino a Gramsci. Si tratta di quell’accento manicheo che risuona ad esempio nel Risorgimento di Gobetti, il quale, pur recependo l’eredità crociana, può essere inserito a buon diritto nella prospettiva gentiliana per quanto concerne la sua concezione del ruolo pubblico dell’intellettuale. Croce, invece, pur partecipando dello stesso clima intellettuale, coglie i rischi di ogni esaltazione volontaristica che cerchi riscatto dal presente in una qualunque visione ideale. Già nel 1903, infatti, ammonisce in questo senso i giovani del «Leonardo»; e nel 1911, in uno scritto poi lodato da Amendola, chiarisce come il vero problema della politica non sia creare un nuovo mondo, bensì seguitare a lavorare, in qualunque condizione, per migliorare quello vecchio, ossia l’unico reale. La posizione di Croce, che pure si impegna per il recupero e la valorizzazione della tradizione italiana, si distingue anche in questo dal programma nazionale di Gentile[12]. Egli rifiuta ogni confusione tra “partecipare” e “parteggiare”; nega l’immagine politicizzata di De Sanctis diffusa dai nazionalisti; ricorda come gli intellettuali possano avere un ruolo pubblico attivo, senza necessariamente adottare un atteggiamento romantico. Pur non considerando quello della scuola l’unico problema del paese, Croce ne sottolinea più volte il ruolo fondamentale, non tanto per la formazione della classe dirigente, bensì per rafforzare la coesione sociale a tutti i livelli, attraverso l’aggregazione di un ceto civile in grado di realizzare una mediazione culturale interclassista. Contro ogni uso strumentale o profetico della storia, infine, egli nega che essa sia determinante al di sopra e al di fuori delle nostre responsabilità nei suoi confronti e di ogni scelta individuale.

Jaspers affermò che poiché nel corso del tempo è accaduto più volte che la storia fosse manipolata  e generasse forme di potere dispotico, il totalitarismo era come una bestia in perenne agguato:

Nessun paese è immune dal partorire il mostro del Totalitarismo. Come un mitologico Proteo esso assume sempre nuove sembianze, scivola via come un’anguilla, fa esattamente il contrario di quello che dice, falsa il significato delle parole, apre la bocca non per fornire informazioni, ma al solo scopo di ipnotizzare, sa sviare l’attenzione, insinuare, intimidire e ingannare; provoca e sfrutta ogni timore, distrugge – mentre la promette – ogni sicurezza[13]

Gramsci, come Croce, in contrapposizione a Gentile, non ridusse lo Stato alla funzione di dominio e di coercizione, a mero momento della forza, a guardiano notturno che impone, controlla e tutela l’ordine sociale, altrimenti «Stato = società politica + società civile, cioè egemonia corazzata di coercizione»[14]. Dunque, secondo Gentile lo Stato ed il cittadino si fondono tutt’uno. Nella voce «Fascismo» della Enciclopedia Italiana, attribuita a Benito Mussolini e in parte anche a Giovanni Gentile, il rapporto fra l’uomo e lo Stato è così definito:

Antiindividualistica, la concezione fascista è per lo stato; ed è per l’individuo in quanto esso coincide con lo stato, coscienza e volontà universale dell’uomo nella sua

esistenza storica (…). E se la libertà deve essere l’attributo dell’uomo reale, e non di quell’astratto fantoccio a cui pensava il liberalismo individualistico, il fascismo è per la libertà. E per la sola libertà che possa essere una cosa seria, la libertà dello stato e dell’individuo nello stato. Giacché per il fascista, tutto è nello stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello stato. In tal senso il fascismo è totalitario, e lo Stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa  e potenzia tutta la vita del popolo[15].


[1] R. Bodei, Novecento: apogeo e crisi del moderno, in Storia Contemporanea,Roma, Donzelli, 1997, p. 288.

[2] Mussolini in un suo discorso tenuto a Napoli nel afferma usando parole che riecheggiano Sorel:«Noi abbiamo creato il nostro mito. Il mito è fede, passione. Non è necessario che esso debba realizzarsi. Esso è una realtà per il fatto che è uno stimolo, una speranza, una fede, che è coraggio. Il nostro mito è la nazione, il nostro mito è la grandezza della nazione».Brano tratto da George H. Sabine. Storia delle Dottrine Politiche, Milano, Etas Kompass, 1992,  p. 687.

[3] Lettera del 22 febbraio’14 in Carteggio Croce- Vossler, cit., pp. 179-180.

[4] E. Giammattei,   La biblioteca e il Dragone Croce, Gentile e la letteratura, cit., p. 70.

[5] Lettera del 12 febbraio 1914, i n Carteggio Croce- Vossler,cit., p. 177.

[6] B. Croce, Il senso politico, in La religione della libertà, Antologia degli scritti politici, a cura di G. Cotroneo, Milano , SugarCo, 1986, p. 175.

[7] Ibidem.

[8] B. Croce, La concezione liberale come concezione della vita, cit., p. 116.

[9] G. Gentile, Discorsi di religione, Firenze, Sansoni, 1957, p. 25.

[10] Cfr. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Torino, Einaudi, 1967,  p. 350.

[11] Cfr. M. Maggi, La filosofia di Benedetto Croce, Napoli, Bibliopolis, 1998, pp.112-120 .

[12] Cfr. N. Nicolini, Croce, Gentile ed altri studi, Firenze, Sansoni, 1973, pp. 70-73.

[13] K. Jaspers, La battaglia contro il Totalitarismo, a cura di G.A Brioschi e L. Valiani, in Totalitarismo e cultura, Milano, Comunità, 1957, p. 86.

[14] A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerretana, Torino, Einaudi, 1975, II, Quaderno 6 (VIII),par. 136, p. 800.

[15] Voce Fascismo, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell’ Enciclopedia Italiana, 1932, XIV, p. 847.

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