
Per poter ottenere un visto di lavoro in un paese aderente al Consiglio di cooperazione del Golfo Persico (Arabia Saudita, Oman, Kuwait, Bahrain, Emirati Arabi Uniti e Qatar – le petromonarchie, insomma), è necessario effettuare un controllo medico di routine che valuti le condizioni di salute del potenziale espatriato. Così, una mattina bollente di inizio maggio mi sono presentata all’ospedale del quartiere, chiedendo di prenotare un check up medico in vista di ottenere la labour card. Con l’Italia in testa, ho fatto il mio ingresso in ospedale immaginando che mi avrebbero fissato la visita di lì a un mese; invece, mi è stato risposto che potevo presentarmi tutti i giorni dalle 9 del mattino alle 9 di sera, a qualunque ora. Bene!
E così, nel pomeriggio mi avvio verso l’ospedale, su una macchina che segna 44 gradi esterni (alle 5 del pomeriggio: non male). All’entrata vengo accolta prima da un’ondata di vento gelido delle steppe russe, e poi da un omanita in dishdasha color indaco, con un paio di baffi alla Tom Selleck e la faccia da pistolero, che mi indica a quale sportello rivolgermi.
Dopo aver pagato 20 rial (37 euro), vengo indirizzata alla stanza 22 al piano di sopra; mi volto e vedo il Pistolero sorridermi e indicarmi le scale. Là mi viene scattata una foto e presa l’impronta del pollice sinistro. “Se avessi saputo che mi avrebbero scattato una foto, non avrei messo questa maglietta con sta scritta stupida!” mi dico, tirando giù la maglietta più che posso per inabissare la scritta. Poi la dottoressa mi chiede di scrivere su un modulo il nome del mio sponsor (il futuro datore di lavoro), seguito dal suo numero di telefono. Panico: io l’ho sempre chiamato James Bond! Non mi resta che chiamarlo: “Ehm… as-salam alaykum, scusi, mi potrebbe mica dire qual è il suo nome e cognome, io l’ho sempre chiamata James Bond, ma ora devo segnarlo sulla pratica dell’ospedale…” al che James scoppia in una bella risata e me lo dice. La dottoressa mi guarda stupita, mentre scrive “Yasser Al Vattelapesca”. Bene: almeno ora so come si chiama.
Intanto la dottoressa mi porge un foglio con l’elenco delle analisi da fare, e vedo che c’è anche il test dell’HIV. Per un attimo vengo assalita dal dubbio: non è che qualche cretino tra i miei ex era sieropositivo, non me l’ha detto, e ora io per colpa sua morirò giovane, precludendomi tra l’altro la possibilità di lavorare in Oman?
Il pensiero non è ancora finito che è già ora del prelievo del sangue: devo tornare al piano di sotto, alla stanza numero 8. Mentre attendo il mio turno, noto che sono circondata da soli uomini, soprattutto indiani. “Strano!” penso “le donne sono tutte sane, qui?”. Poi capisco il perchè: sono seduta sotto la scritta “Male waiting area”. Ma non faccio in tempo di spostarmi nella parte adibita alle donne, che l’infermiera mi chiama già per il prelievo.
Lo ammetto in pubblica piazza: quando si tratta di farmi prelevare il sangue, sono una gran fifona. Almeno in Italia se svengo sono di casa, ma qui? Chi viene poi a rianimarmi, il Pistolero? Per distrarmi e pensare ad altro, metto in atto la tattica seguente: osservare attentamente ogni dettaglio dell’infermiera. E così, mentre prepara l’armamentario, noto che indossa un paio di guanti monouso color lilla, dei fuseaux verde pistacchio a fiori fuxia sotto il camice, un paio di ciabatte infradito da spiaggia di gomma rosa confetto, e ha le unghie dei piedi laccate di azzurro come un cielo limpido d’estate. Unghie che sono lunghe e appuntite come coltelli, ma non tutte: solo quelle degli alluci e del secondo dito. Un bijou. Grazie a queste unghie affilate che mi hanno ipnotizzata, però, non mi sono accorta che il prelievo è già finito. Bene!
Da noi, di solito, al termine di un prelievo ti applicano una garza con del nastro adesivo da tenere premuto per un po’, che poi quando lo togli ti fa una mini-ceretta e ti resta il segno della colla tutto il giorno, insieme all’odore di alcool. Qui no: l’infermiera mi applica un cerottino mignon, rotondo e grosso quanto la punta di un mignolo, e arrivederci. Non prima, però, di avermi spedita in bagno a riempire una provetta di urina.
Lo sapevo che non avrei dovuto fare la pipì prima di uscire di casa! E adesso? E’ tutto il giorno che bevo bottiglioni di acqua per reidratarmi, possibile che non abbia voglia di farla proprio adesso? No: non ho nessuno stimolo. Però la devo fare lo stesso.
Vado nel bagno, fodero tutto il wc di carta igienica multistrato, mi seggo facendo cadere qualche multistrato nella tazza, e quel poco di pipì che avevo mi va mezza fuori dalla provetta. Mannaggia! Ma come si fa a centrare un buco così piccolo? Già farei fatica a centrare una damigiana, figuriamoci una pipetta! Comunque, esco dal bagno e percorro la sala d’aspetto cercando di celare la provetta come fosse una bomba a mano, e la lascio all’infermiera, che mi passa un modulo con la scritta “Negative”, informandomi che ora devo recarmi nuovamente alla stanza 22 a fare una radiografia al torace.
Dopo averla eseguita, chiedo alla dottoressa “Mi scusi, ma questo responso “Negative” a cosa si riferisce?” “Al fatto che non sei incinta, cara”. Sollevata (se scoprirò di avere l’AIDS, almeno non sono incinta, pensa se avessi l’AIDS e fossi pure incinta!), scendo le scale e mi metto nuovamente in fila alla reception, sotto lo sguardo attento del Pistolero, che ovviamente mi sorride sornione da sotto i baffi. L’impiegata tale Blessy (Benedetta?) stavolta mi porge un foglio con il mio numero d’attesa per farmi visitare dal Gran Dottor. Ricambio l’ennesimo sorriso del Pistolero e mi seggo, stavolta tra uomini e donne misti: prima era solo un caso, allora, se c’erano solo uomini intorno a me.
Il vento gelido delle steppe russe (l’aria condizionata) mi sta per gonfiare le tonsille, quando arriva il mio turno. Il Gran Dottor è in realtà una Gran Dottoressa, la quale in pochi minuti mi misura la pressione, controlla la vista e il battito cardiaco, mi pesa e misura l’altezza, e avanti un altro.
Torno al primo piano alla stanza 22, dove mi viene detto che l’indomani dalle 13 potrò già ritirare il responso. Esco salutando il Pistolero, che intanto si era già appostato fuori dalla porta, pronto a darmi l’ultimo saluto.
Ed eccomi qui puntuale a ritirare l’esito del check up, salutata da un Pistolero in gran forma, oggi col dishdasha color crema. Salgo in macchina e apro la busta enorme che contiene anche la radiografia al torace. Prendo in mano i fogli, e scopro che non ho nè l’AIDS nè parassiti malarici o altre malattie miste, ma scopro con enorme dispiacere che la Gran Dottoressa ha scritto che sono alta 1.69 (ma io sono sempre stata alta 1.75!) e che ha scritto che ho 42 anni (possibile che non sappia fare uno stupido calcolo? Gli anni li compirò in agosto, ora siamo ad aprile, ne ho ancora 41, mannaggia a te!). Ma la scoperta più bella è stata la foto: sotto il mio viso sorridente, campeggia la mia t-shirt nera con una scritta a caratteri cubitali affiancata da un cuore: L O V E.
Ora sono proprio pronta a cominciare a lavorare seriamente in Oman.






