I capelli che stano dritti da soli e che dopo un solo giorno sembrano quelli di un maratoneta a fine gara; la faccia spenta come i fiori del camposanto il 2 novembre; un’orticaria che mi ha preso fronte, guance e collo che sembro un’adolescente invecchiata; sogni insoliti e a volte sinistri ogni mattina prima dell’alba. Mettete tutte queste cose insieme, e vengo fuori io dal secondo giorno di corso.
Durante questo corso di introduzione al buddhismo e meditazione ho imparato (ancora una volta) che non bisogna avere aspettative, e che ogni esperienza è a sé.
Mi aspettavo fosse come quello fatto al Tushita Centre a Dharamshala, in India, e invece si è rivelato essere diverso:
1
Là c’era l’obbligo del silenzio per tutti i dieci giorni, fatta eccezione dell’ora di discussione in gruppi dalle 14 alle 15. Qui il silenzio deve essere rispettato dalle 21 al pranzo del giorno dopo.
2.
Là eravamo ottantaquattro anime in cerca di spiritualità e di sé, tra i venti e i quarant’anni. Qui siamo ottanta anime capitate quasi tutte per caso, tra un trekking e un giro nel centro di Kathmandu. Tra i diciassette e i sessant’anni.
3.
Là i pasti erano i più buoni mai consumati in India. Qui ho avuto la conferma che il Nepal è il paese in cui ho mangiato peggio, dopo il Montenegro.
4.
Là il ragazzo israeliano che conduceva le sessioni di meditazione era eccezionale, uno dei migliori insegnanti che abbia mai avuto. Qui il monaco che conduce le sessioni parla così piano che per capirlo avrei bisogno di un corno.
5.
Là le lezioni sul buddhismo condotte da un’americana laica non mi avevano entusiasmato. Qui la monaca Anj Karen è un’insegnante eccezionale. Ora ho compreso cosa si intende quando si dice la parola “Buddhismo”.
Ma anche qui, come il Tushita Centre, il luogo pullula di personaggi interessanti:
– Un signore di colore, pelato, pieno di tatuaggi e con la barba brizzolata, che gira in canottiera bianca e un foulard avvolto sulle spalle, fantasia Versace. Segno particolare: lo smalto dorato sulle unghie dei piedi.
– La versione spagnola di Alfonso Signorini, vestito come un sadu indiano ma con un foulard simil-Gucci al collo. Segno particolare: ha un prontuario di pedalini fosforescenti da fare invidia a un ausiliario del traffico.
– Un ragazzo canadese che ha già letto tutto sul buddhismo, sa tutto sull’induismo e arriva sempre nella sala di meditazione un quarto d’ora prima degli altri. Segno particolare: ha tutta la mia antipatia.
– Una simpatica signora talmente in carne che i primi dieci minuti di lezione ha spaccato la sedia di plastica su cui era seduta.
– Un bel ragazzo bruno che ha la stessa voce di Brandon di “Beverly Hills 90210”: ogni volta che apre bocca ti aspetti di veder spuntare Dylan da dietro il tempio.
– Un gruppo di diciassettenni americani in pieno scompiglio ormonale.
– Una ragazza russa con le labbra rifatte che sembra non sorrida dal 1980 – mi chiedo a cosa serva farsi le labbra a canotto, se poi non le usi per sorridere.
– E infine un cinquantenne danese intelligente, colto e col senso dell’umorismo. Segno particolare: felicemente sposato e con due figli. Uffa.
Fin dall’inizio ho capito che non avrei avuto la pace che cercavo.
Il silenzio obbliga ad ascoltarsi, a sentire ciò che non vorremmo. Ieri sera, ovvero alla vigilia degli ultimi due giorni di ritiro in cui invece bisogna rispettare il silenzio, un ragazzone danese altissimo e biondissimo (Il Danesone) mi ha chiesto com’è doversi ascoltare: “Ho paura ad affrontare il silenzio di domani, io parlo sempre perché non voglio stare solo con me stesso”.
Il bello di questi ritiri è proprio l’essere obbligati a uscire dal bozzolo che ci è familiare (le chiacchiere, il cellulare, la musica) per attraversare quel processo inevitabile che è il lasciar andare le nostre abitudini e ascoltare cosa abbiamo da dirci.
E così, appena finiva una meditazione o una lezione, tanti non avevano ancora messo il piede fuori dalla Gompa che subito parlavano ad alta voce, ridevano, scherzavano e vai col liscio.
Irritata dalla mancanza di silenzio, appena potevo mi chiudevo in camera a leggere (totale libri letti: sei), covando pensieri alla Signorina Rottermeier. Poi non sopportavo più il monaco che ci faceva le meditazioni. Poi indossavo a giorni alterni il fiocco giallo datomi dai monaci a inizio corso. Indossarlo significava “State alla larga, sono in silenzio”.
E così potevi vedere noi quattro gatti girare per il monastero con il fiocco giallo e l’aria beata di chi osserva il silenzio: eh, noi sì che meditiamo e siamo in pace!
In realtà, il sorriso ebete era solo una maschera: dentro, avrei ammazzato qualcuno. Contro uno dei regolamenti del ritiro e del buddismo stesso, “Accetto di non uccidere, rubare, mentire (né agli altri né a me stesso), prendere sostanze stupefacenti, compiere atti sessuali e ascoltare musica”.
Tutto questo fino a circa il quarto giorno, quando, a cena nel refettorio e col fiocco giallo appuntato sulla maglietta, una signora inglese mi ha chiesto con tono gentile e a bassa voce: “Te la senti di parlare?”. Ho ascoltato il mio istinto, ho staccato il fiocco e ho detto sì.
Ho così conosciuto una delle donne più straordinarie che abbia mai incontrato. Fran è una psicologa con due figli grandi che, dopo aver vinto un tumore al seno, ha cambiato vita: ha fondato un’istituzione benefica che affianca una associazione nepalese che aiuta i bambini disabili, e viene a Kathmandu per diversi mesi all’anno a gestire il progetto.
Dopo aver rotto il mio silenzio forzato ho conosciuto altre persone e ascoltato storie di vita e cammini che hanno portato tutti noi fino qui, in Nepal.
Quando le cose non vanno come vorremmo dobbiamo sempre chiederci il perché: forse ho una lezione da imparare?
Io dovevo rispolverare la pazienza. La sopportazione quando le cose non vanno come vorrei. La capacità di di cambiare atteggiamento e aprirmi, anziché chiudermi in me stessa.
Ovviamente in questi otto giorni ho avuto ansie miste, paura per il futuro, e chissà se riuscirò mai a licenziarmi e trovare un’alternativa che mi permetta di vivere ed essere anche felice, oddio devo affrontare mio padre, magari vado in Oman, no faccio un corso di meditazione vipassana in Myanmar, quasi quasi vado a trovare la mia amica in Albania, ah ma prima devo andare a quel matrimonio in Cambogia, ma da piccola non sognavo di mollare tutto e andare in Africa?
Poi ho lasciato andare tutto, passato e futuro. Dai miei anni vari in viaggio ho capito una cosa importante:
Le cose che devono accadere accadono anche se non ti affanni.Ciò che dovrà essere, sarà. Basta solo avere fiducia e un cuore aperto, aiutare gli altri e ascoltare l’istinto.
In questo corso ho consolidato ciò che avevo appreso al Tushita Centre: per vivere sereni bisogna imparare a conoscere come funziona la propria mente, soprattutto quando andiamo in tilt. E bisogna avere compassione, distaccarsi dalle cose materiali e capovolgere il nostro concetto di buono e cattivo: quando una persona ci fa del male bisogna vederla come un maestro, un guru capitato nella nostra vita per aiutarci a diventare più pazienti, più compassionevoli e più illuminati. La strada è difficile, ma mi pare sia l’unica percorribile per essere felici.
Tra poco un aereo mi riporterà nella mia India. Da Delhi prenderò un autobus notturno che mi porterà là dove questo viaggio è iniziato, a Dharamshala.
Un altro corso di meditazione tibetana mi attende, domani mattina, di nuovo al Tushita Centre; questa volta silenzioso e più intenso: “Curare le emozioni che disturbano”.
Ho lasciato il Monastero di Kopan mentre il gruppo faceva meditazione camminata, passando quatta quatta tra un’ottantina di zombie con lo sguardo basso e concentrati a respirare a ogni passo. In un angolo, la russa dalle labbra rifatte stava seduta al sole col cellulare in mano. Poi ho scorto Il Danesone, tutto concentrato: lasciando la meditazione per un secondo, mi ha fatto l’occhiolino e mi ha sorriso.
Infrangere le proprie regole è possibile: basta osare e fare il primo passo.
Come disse il grande Lama Yeshe, fondatore del Kopan Monastery:
Sii il terapeuta di te stesso.