"Io ho il cuore nero, me ne frego e sputo in faccia al mondo intero”. "Il tram si muove sulle rotaie. A Milano, di sicuro, corre sulle rotaie ma qua da noi, a Roma, non corre nulla, tanto meno un tram che nel migliore dei casi si muove sulle rotaie, stride e rallenta. Rimango incollato al finestrino, è una mattina piovosa di un settembre impazzito in un autunno anticipato, la fermata di via dei Reti è vicina, poi il tram imboccherà la curva che porta dritti dritti al Verano, il camposanto della città, il primo, il vero camposanto, gli altri sono venuti dopo e sono periferie aggiuntive di un tempo che ha diminuito le nascite ma centuplicato i morti. Noi siamo morti, voi siete morti, diceva Carmelo Bene, sbarrava gli occhi senza alcuna pietà per noi che stavamo ad ascoltarlo, perché vi parlo si domandava, parlo a gente che è morta, voi siete tutti morti e non lo sapete. Il tram percorre viale Regina Margherita, all’incrocio con via Nomentana scendo e prendo un altro mezzo che mi porta in centro, a ridosso delle mura vaticane. Potrei fare anche un altro tragitto, più veloce mi hanno garantito, ma ho una perniciosa attitudine alla ripetizione, tra le tante ripetizioni giornaliere non può mancare il caffè al bar, la sigaretta accesa d’inverno con il bavero alzato, il cenno al giornalaio e prendere il tram, il mio arrugginito, anchilosato tram delle ore 7.30, superaffollato, superlento, super, semplicemente super. Io ho il cuore nero, me ne frego e sputo in faccia al mondo intero. I manifesti in fila indiana, uno dietro l’altro, sono ancora là, come muti annunci mortuari, quelli che si vedono ancora nei paesi, nel giorno di santa Rosalia, è venuta a mancare ai propri cari la zia Carmela vedova del fu zio Domenico. I manifesti affissi sono neri con la scritta bianca e dicono tutti la stessa cosa: io ho il cuore nero e me ne frego e sputo in faccia al mondo intero. C’è qualcosa di posticcio e inquietante, quel qualcosa che emana non è un odore ma un segnale lacerante che perfora i timpani, come quegli ultrasuoni che riescono a sentire solo i cani. I cani possono impazzire se quel sibilo viene usato costantemente e ripetutamente come una silenziosa sirena. È una croce, una croce capovolta, immagino celtica, non di certo la croce di un Cristo misericordioso che invece è sita in alto al centro dei manifesti funebri che ricordano quanto zia Carmela nel giorno di santa Rosalia manca tanto all’affetto dei suoi cari e dei suoi congiunti. Un mondo di prelati e faccendieri dell’anima mi accolgono, oltrepassate le mura vaticane. Un collega ha consigliato al figlio dell’altro collega di fare una bella visita oculistica, il figlio adolescente guarda interdetto, non capisce bene cosa si sta dicendo, ha capito che si sta parlando dei suoi occhi ma quello è un fattore solo marginale, in realtà della sua visita oculistica non frega molto a nessuno. Intanto il collega dice all’altro collega che è sempre meglio scegliere occhiali di una gradazione inferiore rispetto a quella prescritta. Questo perché a lungo andare l’occhio malandrino si abitua e s’impigrisce, in altre parole non fatica, non si sforza, ma in fondo poi è meglio non vederci perfettamente bene anche con le lenti, così se ti chiedono se hai visto qualcosa tu, chiunque tu sia, potrai sempre rispondere: «Cosa? Cosa c’è da vedere?». Sfumare i contorni e non mettere a fuoco l’immagine è una forma di salvezza. Mi trovo costretto a lavorare in questo luogo e devo ringraziare il cielo perché di questi tempi non ci sono tante occasioni per conservarti il posto di lavoro, come una conserva di pomodoro inacidita, e curarti l’anima con l’uso di occhiali male graduati, lenirti l’anima con la miopia corretta da lenti imperfette. Non sono più tanto giovane, ma nemmeno così anziano da non crederci più e lasciare andare quelle corde tese che mi hanno tenuto ancorato a invenzioni fasulle, a dettami più o meno sicuri entro i quali ho regolato l’orologio del mio tempo. Eppure c’è qualcosa che non torna, i conti non sempre tornano e anche quando fai la prova del nove può rimanerti un resto, un difetto, così alzi il tappeto e con la velocità di un goleador ce lo butti sotto, lo sotterri affinché nessuno lo veda."
Tre storie ambientate a Roma che si intrecciano e svelano nella trama delle generazioni. Successi e frustrazioni personali legati alle vicende politiche dell’Italia degli ultimi sessant'anni,affidati allo sguardo di tre generazioni diverse,dal Sessantotto ultrapolitico al miracolo degli anni Ottanta,per approdare alla confusione del Duemila. Sullo sfondo disastri e misteri irrisolti di un paese dolente,riflesso sui muri della città eterna che invoca,soffocante e magica,il passato ingombrante,l'esperienza,il presente., Ogni racconto è un urlo che ne aggancia un altro,fino all’azzardo ultimo del protagonista ventenne,perchè l'Italia non è,ormai,un paese per giovani.
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