di Umberto Scopa. Mentre scrivo è il 20 maggio 2013, osservo il fiume e ricordo nitidamente questo paesaggio com’era esattamente un anno fa quando proprio il 20 maggio, in piena notte, irruppe il terremoto nel nostro sonno. Improvvisamente quel boato ti strappa dal sonno e in piena notte è ancora più terrificante che di giorno. Improvvisamente il luogo amico per eccellenza, la casa, diventa nemica, trema di rabbia e minaccia la morte. Si cerca rifugio nella strada, nei campi, negli spazi aperti che sono sempre più rari nelle città. Ci siamo ritrovati in tanti in questo luogo sotto le stelle di una notte surreale.
Qui sull’argine del fiume il terremoto che ho vissuto sembra un ricordo lontano. E’ passato un anno e anche i nervi si sono cicatrizzati sulla paura. Per mesi abbiamo vissuto nella psicosi di nuove scosse. Poi improvvisamente è accaduto che tutto si è normalizzato. Il ricordo sembra lontano. Ed è passato solo un anno. E’ la prodigiosa capacità di guarigione della nostra mente. Il tempo è come un fiume che con la sua azione incessante ammorbidisce e smussa i ricordi più taglienti.
Il terremoto è più feroce laddove la natura è stata più ferita dall’uomo, lo è meno laddove la mano dell’uomo è stata meno pesante. Col terremoto si fugge dal cemento, dal suo abbraccio ingenuamente fatto per proteggere.
Questo luogo naturale dove la vita scorre sospinta dal lento fluire del fiume è un rifugio, e lo è in molti altri sensi. Che la natura sia un rifugio, almeno per me, una via di fuga dalla società umana è abbastanza chiaro. Naturalmente fuggire da un luogo verso un altro implica una distanza tra i due che in questo caso non è così scontata, ma in un certo senso è una speranza. Perché immaginare che natura e società umana siano due mondi contrapposti, retti da logiche e dinamiche molto diverse è quasi una speranza. Molti trovano consolante questa distanza, alcuni perché ritengono di essersi elevati verso un ordine superiore rispetto a quello della natura, cosa di cui dubito. Altri trovano consolante questa dicotomia per opposte ragioni, cioè perché ritengono che qualcosa dotato di una sua primitiva purezza, distante da noi, sopravviva ancora alla contaminazione della società umana. Altri non la trovano ne consolante ne sconsolante, la percepiscono soltanto e questo basta.
L’orrore degli uomini di potere che infestano i piani alti dell’edificio sociale, i primari degli ospedali, i manager, gli amministratori, i politici, sono ai miei occhi il connotato pervasivo, odioso e più costante della società umana. E’ come se avessi addosso una lente deformante nella mia visione del mondo che ormai fa parte di me e mi porto dietro da sempre. Più si sale in alto e più prepotenza, e inganno sembrano essere le vere leve del potere, le lettere dell’alfabeto che si parla, la miscela dell’aria che si respira. Queste sono le regole. Chi non gradisce rimane nei piani bassi. Semplice no? Forse troppo?
L’antica forza, quella cosa che mira a piegare la volontà altrui, si è addestrata a queste tecniche sofisticate per ottenere il medesimo risultato. Oggi l’arte di falsificare una statistica ha un potenziale di forza enormemente superiore a quella di tutti i muscoli dell’armata di Gengis Kan. Le statistiche dicono che stiamo meglio oggi di ieri, non c’è uomo di potere che non abbia una statistica in mano per dimostrare la utilità del contributo del suo operato. Ma il noi, il soggetto della frase “stiamo meglio”, è un concetto alquanto evasivo. Se c’è un noi, c’è un loro che si contrappone, e uno sguardo che si allarga su diverse prospettive, altre angolature, altre visioni, rivelazioni agghiaccianti. Se un alieno dallo spazio guardasse il globo intero del nostro pianeta direbbe che 4/5 dell’umanità sono fermi al medioevo e 1/5, quello che fa le statistiche è proiettato nel futuro. Se l’alieno facesse una media tra i due estremi delle condizioni di vita della popolazione mondiale e il numero delle persone che vi sono associate ricaverebbe questo dato: l’uomo medio del pianeta terra oggi deve ancora raggiungere il rinascimento. E un rinascimento è quello di cui in un certo senso abbiamo bisogno in questa epoca buia.
Quando parlo della società umana, sempre più lontana da quella naturale, parlo di quella minuscola parte in cui vivo, quella che fa le statistiche, con le quali mente a se stessa e al mondo.
A volte mi chiedo se il mondo naturale che osservo non sia, nonostante questo, una rappresentazione fedele e speculare di questa società proiettata nella modernità. Che in fondo la legge del più forte è sempre la stessa vetusta legge di sempre che nel mondo naturale e nella società degli uomini si impone schiacciando il più debole. Sempre la stessa legge che regola la società umana e quella naturale in forme diverse. Ci sarà, mi chiedo, nel pantano del fiume una pantegana che del tutto a suo agio nello schifo in cui nuota si comporta istintivamente con logiche non troppo distanti da quelle del Direttore Generale di un ospedale, o il manager di una multinazionale, o un giudice, o un politico?
I nostri comportamenti sono davvero così distanti da quelli degli animali, o da quelli dei nostri lontani antenati?
Nel 1570 in pieno rinascimento un terribile terremoto colpì questa città. Era venerdì 17 novembre. Il duca Alfonso terrorizzato fuggì all’aperto e dormì in una carrozza per alcuni giorni. Questo raccontano le fonti. Non è un comportamento tanto diverso da quello di chi solo un anno fa ha dormito in macchina quando la storia si è ripetuta. Ma non è tutto. Ci sono fonti che raccontano il dopo terremoto del 1570 e le polemiche scaturite tra la gente sulle possibili colpe umane. Fu accusato del terremoto il duca Alfonso per via di una delle sue opere oggi ritenute più meritorie: aveva realizzato un imponente opera di bonifica delle paludi intorno alla città e si era sostenuto che aver modificato questo stato naturale aveva provocato i movimenti nel sottosuolo. Oggi la cosa fa sorridere, ma solo un anno fa si è cercato di incolpare una società per le trivellazioni fatte nel sottosuolo presso Finale Emilia come possibile causa del terremoto. La cosa fa sorridere di meno perché è recente, ma le analogie non mancano. La paura spinge a processi troppo sommari. Bisogna essere cauti nel giudicare.
Ma ci sono sempre anche gli sciacalli che brandiscono le disgrazie: nel 1570 la chiesa attribuì il terremoto ad una punizione divina contro il duca colpevole di non riconoscere i diritti del Papa sul territorio, e colpevole di ospitare oltre 2000 ebrei in città. Qualche anno dopo, la chiesa, recuperate le redini della città, istituirà il ghetto per gli ebrei.
Sul luogo del disastro arrivano sempre gli uomini di potere. Oggi hanno sempre una parola buona, una parola di speranza, una promessa. Ma anche oggi rivoltano a loro favore ogni cosa, senza decenza. Si appropriano dei meriti di chi con la forza delle braccia senza clamori rimette insieme i pezzi. A volte fanno di peggio e ne traggono occasione di lucro. La storia del nostro paese è ricca di terremoti lucrosi per chi ha saputo approfittarne. Sono sempre uomini di potere i protagonisti di questa storia che si ripete, uomini che sulle macerie altrui rafforzano il loro potere. Hanno sempre qualche statistica in mano pronta all’uso per sostenere il loro meritorio operato. Sanno cavalcare la terra anche quando trema come un cavallo imbizzarrito senza essere disarcionati.
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