In senso lato possiamo ritenerci di passaggio ovunque, c’è chi anche ha intitolato il suo scrittoio virtuale così. Si tratta di una provvisorietà metaforica, come a dire stai qui tutto il tempo che ti serve, che vuoi, che ti è concesso, che c’è scritto sul contratto che hai firmato, e poi lascia tutto come l’hai trovato. Scrolla le briciole dalla tovaglietta, rimetti la sedia sotto il tavolo, se hai consumato qualche provvista lascia comunque qualcosa di utile a chi ti succederà. Allora uno pensa che sia meno traumatizzante il cercare di affezionarsi il meno possibile alle cose, ai luoghi, alle persone. Se ti abitui a non aver bisogno di nulla poi sarà più semplice rinunciarvi. Mi immagino una stanza d’albergo, gli ospiti che consegnano la carta di ingresso al termine della permanenza, gli inservienti che notano se la mattina prima di uscire ti sei preoccupato di rifare il letto perché le lenzuola all’aria danno comunque il senso di sciatteria. Intanto il loro lavoro è quello di cambiarle comunque, poi non credo tengano un registro delle persone più collaborative e meno disordinate da consegnare al direttore della struttura ricettiva, che poi cosa se ne farebbe di un elenco di pignolerie inutili. Senza contare che raramente si è habitué dello stesso posto, ah chi si rivede caro dott. Plus1gmt, lei sì che è un cliente modello che lascia sempre la stanza come l’ha trovata.
E poi non è detto di trovare lo stesso personale alla reception e ai servizi ai piani la volta successiva, sapete come vanno le cose. Anche sul lavoro è bene ritenersi di passaggio, visti i tempi. Ed è per questo che ammiro le persone che lasciano traccia anche per una breve permanenza, per rendere l’ambiente il più confortevole alle loro esigenze. Questo in senso reale e metaforico, s’intende. Quelli che tingono le pareti dell’appartamento in affitto anche se ci staranno solo qualche mese. Spostano mobili e rimuovono quadri orrendi nella casa di campagna in cui soggiorneranno una stagione a malapena. Si impegnano a discutere con la gente conosciuta per caso, pur sapendo che non la rivedranno più. Tutti questi, io un po’ li invidio perché hanno una personalità decisa, vogliono vivere secondo standard ben definiti sotto i quali mai scendere, sono ben ancorati al presente e non perdono tempo ad aspettare sempre il dopo.
Rivisitare ciò che si ha intorno secondo la propria indole è una bella terapia di autostima. Io, per esempio, non ho mai personalizzato il posto in cui lavoro. Il mio ufficio, la mia scrivania, il desktop del mio computer, il salvaschermo. Magari mi viene in mente di farlo. Mettere un portaritratti con la mia famiglia in bella vista. Portare una pianta da curare ogni dì. Ho amici che hanno colleghi che addirittura usano le sciarpe della squadra del cuore come addobbo per il proprio monitor. Mi hanno fatto notare però che spesso la customizzazione dell’ambiente lavorativo (e dell’ambiente in genere) è una caratteristica tipicamente femminile, e in effetti ricordo che gli unici uffici privi di quadri alle pareti in cui ho lavorato erano quelli ad alta densità di ingegneri. Questo significa che se sono così poco attento ai dettagli è perché sono un uomo.
Oltre a questo sul lavoro ci sente sempre meno indispensabili, con la crisi che c’è, quindi forse lì più di altrove è saggio limitare il proprio impatto. Pensate che adesso si sono inventati persino i desktop virtuali e le postazioni libere, negli uffici. Ovvero arrivi, ti siedi nella prima scrivania libera che trovi, accendi il thin client (si chiamano così) che hai a disposizione, inserisci nome utente e password e quello ti ricrea il tuo computer indipendentemente da dove sei e da quale pc stai utilizzando. Un sistema che sarà anche più facile da gestire per le aziende che quello tradizionale, ma che mai come ora ti fa sentire una nullità. Così, di questi tempi, tra quello che si legge sulla disoccupazione e quello che si sente dire sui pronostici della fine del mondo imminente, ho pensato al mio buon proposito per l’anno a venire. Ho deciso che l’anno prossimo, sulla parete a fianco della mia scrivania in agenzia, mi porterò da casa un poster da appendere. Forse sarà David Bowie, forse una stampa di un dipinto di Boccioni, o una foto di Sandro Pertini, o Jean Seberg coi capelli corti in “À bout de souffle”, non lo so ancora. Ma ho pensato di concedermi un prolungamento di quello che faccio e di quello che sono. Se non altro per ricordarlo a me stesso, nelle più barbose operazioni seriali. Certo di non disturbare nessuno.