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Cronache di una vita

Da Sharebook @sharebook1
Immagine:  Cronache di una vita

La chitarra e uno zaino in spalla e via, lasciai il portico di casa alle quattro del mattino senza che nessuno se ne accorgesse. Non era nemmeno l’alba, ombre scure si proiettano tra i lampioni che mi rischiaravano la strada e una frasca brezza si insinuava nella mia felpa. Dalla finestra di quella che un tempo era la mia casa, si poteva scorgere la vecchia televisione lampeggiare ininterrottamente, trasmetteva le repliche di qualche vecchia partita di football ma le parole del cronista erano soffocate da un sonoro russare proveniente da un vecchio divano macchiato e lacero. Il chiarore del televisore rischiararono l’interno del piccolo appartamento di mio padre, ricordandomi da cosa stavo scappando. Bottiglie e lattine di birra erano sparse per tutta la stanza, insieme a pacchetti vuoti di sigarette e varie pagine di un giornale sportivo strappate; su un tappeto consumato dalle cimici spiccava una bruciatura provocata da una cicca che vi era stata spenta sopra. Sul divano, messo di fianco rispetto a quella misera scena, mio padre russava. In una mano teneva stretta una bottiglia di grappa ormai vuota per metà, di cui il liquido trasparente aveva iniziato a colare sul divano, aggiungendo un’altra macchia sul finto cuoio che lo rivestiva. La canottiera di mio padre era macchiata come sempre, stacciata e lurida. Anche senza trovarmi con lui in quella stanza riuscivo a sentire l’odore nauseante di alcol e tabacco che trasudava, a udire la sua voce roca provocata dagli alcolici e ricordai come ogni vota che tornavo a casa chiudevo la porta a chiave, terrorizzato dalla sua ubriachezza e follia. Più convinto di prima abbandonai il posto che non ero mai riuscito a chiamare veramente casa. Non avevo rimorsi a compiere quella scelta, nell’abbandonare mio padre al suo destino, intendo. Avevo tentato invano di salvare la sua situazione e non avevo nessuna intenzione di affondare trascinato da lui in un inferno di droga e alcol. Il vento di libertà che mi aveva accompagnato nella mia scelta mi guidò per il resto della mia fuga, così raggiunsi un parco a circa quattro quartieri da casa mia - abbastanza strada per un vecchio ubriaco che cerca il figlio e non ha idea di dove si trovi – per fare il punto della situazione. La panchina dove mi sedetti era ancora bagnata per colpa dell’umidità, ma non me ne accorsi affatto. Con la testa fra le mani e lasciai scorrere le lacrime di amarezza, sapendo che avevo abbandonato diciannove anni della mia vita per essere libero. Le lacrime mi bagnarono il volto e mi sfocarono la vista, ma sapevo di aver fatto la cosa giusta andandomene di casa. Volevo iniziare una nuova vita, per quanto sembrasse impossibile con quel poco che avevo. Nel mio zaino c’era tutta la mia vita da quel momento in poi: una foto di me insieme al mio migliore amico e la mia ragazza - che non sapevo se avrei mai più rivisto -, un vecchio telefono a cui avevo comprato una nuova scheda che stavo per attivare, un quaderno pentagrammato quasi tutto scritto, un plettro, e poi c’erano i beni di prima necessità come un portafogli con circa cinquecento dollari e una carta di credito (soldi che avevo faticosamente guadagnato lavorando ogni dove fosse possibile), cibo per almeno un mese, e un sacco a pelo. Niente di più, niente di meno. Speravo di riuscire a sopravvivere per due settimane, poi si sarebbe liberato un box a circa due isolati dal parco dove mi trovavo che ero riuscito ad ottenere con una gran fortuna (quelli che di solito venivano usati come garage). Avevo lasciato il mio vecchio lavoro (il mio capo aveva compreso la mia situazione e dopo la mia spiegazione si commosse così tanto da darmi un piccolo extra “per il coraggio”) e ne avevo trovato altri tre, uno la mattina per una ditta di traslochi, uno nel tardo pomeriggio per una ditta di consegne, e la sera facevo il cameriere in un bar. Avevo fatto tutto il possibile perché mio padre non potesse più rintracciarmi. E adesso mi trovavo lì, in un parco pubblico, con la testa fra le mani e gli occhi lucidi, prima dell’alba, insieme alla città dormiente. Non ne capivo semplicemente il senso, ora che mi trovavo come un osservatore esterno del viavai che iniziava già a mettersi in moto sotto i miei occhi nelle prime fioche luci del mattino. Potevo vedere tutto e contemporaneamente nulla. Cosa siamo? Cosa eravamo? Minuscoli granelli di sabbia dispersi nel deserto? Pedine di un gioco che dura per tutta la nostra vita? Ma se è così, chi sono i giocatori? Chi è responsabile del vento che crea le dune?

Si, devo ammettere che non mi resi subito conto di tutte quelle stupidaggini che stavo pensando.

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