Crash (1996) di David Cronenberg è un film “impossibile”, secondo certa critica persino intollerabile, un film che inizia dove finisce il buonsenso dello spettatore (e la critica, spesso, non supera affatto il buonsenso avendo anch'essa certe abitudini). E' curioso che sia da sinistra che da destra l'abbiano preso tutti per una mostruosità indegna...Il fastidio calcolato che può procurare trova, forse, per certuni nell'alibi del film erotico un mediocre compromesso: ma per dirla tutta, Crash non è un film di scopate e, anzi, di vitalistico non ha assolutamente nulla. Un filosofo italiano parla da qualche decennio di “sex-appeal dell'inorganico” (Mario Perniola) - bella formula, senz'altro pertinente, ma come tutte le formule rimane poco più di un gadget (basta vedere quanto poco ha fatto proseliti tra i filosofi). Il punto è che Cronenberg ama la sperimentazione, non le “tematiche” o i “contenuti”. Perciò quando vediamo un suo film sappiamo che non troveremo percorsi stabiliti e che, forse, ne resteremo delusi e magari disgustati (allo stesso modo, il recente A dangerous method non è un film storico e neppure biografico, infine è spiazzante). Di certo, non restiamo mai indifferenti. L'obiettivo di questo cinema è forse quello di raggiungere un certo punto di crisi e di analizzarne le conseguenze estreme: era così già nell'ormai celebre Videodrome (1983), in Dead Ringers (Inseparabili, 1988), forse il suo film più equilibrato, e in La zona morta (1983). Dopo la versione onirica e tutt'altro che “fedele” de Il pasto nudo (1991) – se ne trovano accenni nell'intervista a Burroughs che abbiamo pubblicato qui- Cronenberg si getta in un'altra impresa limite dove recupera, forse, la forza visionaria dei tempi de La mosca. A differenza delle scene barocche e, tutto sommato, al limite del kitsch de Il pasto nudo, dove l'oggettivazione del cinema sfiora appena la potenza delle parole, Crash dimostra di essere un film autonomo, se non autarchico, con la sua atmosfera clinica e notturna, i suoi personaggi svuotati di ogni personalità (al di là delle splendide fisionomie, nulla rimane a cui concedere l'identificazione psicologica) e affidati ad un congegno di matrice sadiana- nel senso della Filosofia nel boudoir- dove ripetizione e piacere si vanificano a vicenda. Decisamente non c'è posto per il “dramma”, da queste parti. Non riuscendo a collocare la morbosa apatia dei protagonisti, i coniugi Ballard, sul versante di un conclamato stoicismo (magari politico) e neppure in una versione “accettabile”- secondo il costume borghese- di sessualità “perversa” (qualche sodomia senza conseguenze) lo spettatore si trova spiazzato e, direi persino, castrato da uno spettacolo evocativo quanto spettrale: la “morte al lavoro” non si era mai vista così vacua, priva di giustificazioni umanistiche e, soprattutto, non si lascia ridurre alla consueta “crudeltà” del Reale (molti film lavorano nei dintorni del realismo traumatico, per usare una formula del critico d'arte Hal Foster, in stile Bubble di Soderberg). Se c'è una cosa che fa grande Cronenberg è proprio che non cade mai nelle cosiddette ambizioni di denuncia, come certi registi che non smettono mai di fare sociologia come sostituto dello stile (assente). Si direbbe che Crash viaggi parecchie leghe al di sotto o al di sopra di un discorso “critico” intorno alla società. Il film esalta piuttosto una (inaccettabile?) morte creativa, ed è questa “società dello spettacolo” volontaria e codificata tramite il maestro di cerimonie - un efficace Elias Koteas- che disturba nella sua ricerca ossessiva della sparizione. Della gloria di una sparizione, se vogliamo dare retta al mito di James Dean evocato più volte anche nel romanzo di Ballard (per un parallelo Ballard-Cronenberg si può leggere un interessante articolo pubblicato su Fucine mute).
L'automobile, già, il simbolo-feticcio della Modernità. Basterebbe, forse, questo per fare di Crash un prodotto concettuale, un esperimento filmato. Devastare un'automobile per il gusto di farlo, trattarne le carrozzerie come se fossero dipinti astratti e i corpi dei guidatori come operatori di una performance non vuol dire decostruire ogni premessa della modernità, facendola rovinare nella sacra verità della morte (l'unica verità che sia certa, e pertanto sacra)? Il regista canadese affonda lo sguardo, ancora una volta, in una materia tutt'altro che nuova. Nel lontano 1920, Sigmund Freud affidava le sue più inquietanti teorie ad uno scritto intitolato, guarda caso, Al di là del principio di piacere. Un testo a suo modo sperimentale, dove il “piacere” inteso come libido (in senso ampio, tutto ciò che si ritiene essere il nucleo della psicanalisi freudiana) si è trasformato in una parafrasi infinita, come scrive Derrida nel suo celebre commento (Speculare – su “Freud”, R.Cortina 2000) in un “passo mancato”, un al di là assente: la pulsione di morte scava nel desiderio vitale, non lo oltrepassa perché non è nulla di diverso, ma in questo modo gli conferisce un certo ritmo, lo mette a distanza e ne scalfisce le certezze. Eterna presenza differita, il godimento sessuale in Crash sembra inserirsi bene nel dibattito postmoderno – oggi contestato e frettolosamente archiviato- su che cosa sia davvero il reale. Questione abissale, in buona sostanza, molto raramente affrontata nel cinema che non sia di fantascienza.
A distanza di diverse decadi dal testo freudiano la situazione è più complicata: la società attuale detesta la psicanalisi ma intanto favorisce un overload di ogni sfera, sensibile o intellettiva, spingendo semmai verso l'apatia come protezione soggettiva. Siamo sempre più indifesi, sempre più vulnerabili. Freud era sgomento per via della guerra quando scriveva alcuni trai suoi testi più oscuri, noi lo siamo per via del fatto che anche la guerra è, da tempo, diventata un videogioco. L'esperienza vissuta è sparita dal nostro orizzonte, vomitiamo piuttosto commenti e interpretazioni (lo notava già Susan Sontag a metà degli anni Sessanta, nel suo Contro l'interpretazione). Al di là di complesse questioni teoriche, Crash è un film affascinante sul piano dell'immagine. Le fisionomie, per esempio. Come ha osservato Franco Marineo nel suo Face/On. Le narrazioni del volto cinematografico (Holden Maps/Bur, 2005), “in Crash le facce dei protagonisti non cambiano mai espressione (…) Come un nervo che viene artificialmente portato allo stato di insensibilità, tutte le persone che si incrociano lungo le strade, i coiti, gli scontri di Crash, non sentono. Non godono quando si uniscono sessualmente, non provano dolore quando i loro corpi sono devastati dagli scontri automobilistici da loro voluti...” Il film si conclude sulla promessa di qualcosa che deve ancora accadere. Ne deriva già durante il film- questo film che si limita a scorrere e che sembra indifferente ad ogni teleologia, pertanto seriale e antinarrativo, ma così ricco di particolari che restano impressi nella memoria- una “dilatazione del presente, in questo intervallo infinito tra ciò che non è accaduto e ciò che non accadrà”.
Pubblicato da Remy71 |