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Cucchiaio nella notte

Creato il 15 febbraio 2015 da Giuseppe Martella @GiuseppeMartel1

Negli ultimi mesi Franca Mancinelli, che da anni scrive esclusivamente poesia, ha pubblicato in diverse riviste, per lo più on-line, alcune prose. Prove brevi, racconti leggeri e accorti, ai limiti dell’atonalità o, al contrario, testi che potrebbero essere definiti senza fatica vere e proprie prose liriche (una tendenza, quella della ritmica di un testo non poetico in senso stretto, che nell’ultimo periodo viene praticata da molti autori; come accade nei testi di Emanuele Tonon, solo per indicare un autore conosciuto dai lettori di questa rivista).

Le prose della Mancinelli sono state ospitate da riviste quali ‘Nuovi Argomenti’, ‘Atelier’, ‘Alfabeta2’, il nuovo blog ‘Interno Poesia’, ‘Forma vera’; e sono due i titoli che si alternano nell’inquadrarle: Un letto di sassi e Tasche finte. Prendiamo un passaggio dell’ultima cosa non in versi, uscita per ‘Forma vera’. Solo un passaggio: Ora viaggio nel buio. Sto arrivando senza vedere cosa mi porta a te. So che stai andando oltre i confini del foglio, delle case, dei campi coltivati. È il tuo modo di venirmi incontro, mancando come un’acqua in cammino, diramando. Ti ho letto nel viso (come si tesseva al variare dei pensieri), guardando dal finestrino, finché c’era luce. Ci sono dei preparativi, un’attesa, il perimetro di una stanza che finalmente è violato e attraversato, un ‘tu’ cui riferirsi, poi tutti i movimenti verso una stazione; movimenti che si specificano in uno strappo. Ma l’incontro si ripiega nell’attesa.

A ritroso, poi, recuperiamo un secondo passaggio da Un letto di sassi, pubblicato su ‘Nuovi Argomenti’: Ora stai stringendo una maniglia. Le dita le ho già perse e quello che abbracciavi ora è una porta. Ferma un passo davanti a te. Devi aprirla e andare. Non capisci. Non vedi che non vivono animali in questa casa? E in questa prima fila di parole si recupera il momento in cui il passo viene armato e si produce un piccolo, teso spostamento ancora all’interno della prigione di una stanza. Riappare il ‘tu’ (e qui siamo indecisi se considerarlo una immagine autonoma, di altra identità, o una persona: una maschera narrativa che la Mancinelli usa infine per precisare e amplificare se stessa, fino a delinearsi per sovrapposizione di assenze e mancanze). C’è un’assenza primaria in tutti questi lacerti, che Mancinelli de-scrive, attorno a cui scrive. La tragedia, il momento del crollo, passa sotto silenzio, con un movimento di estremo pudore che scorre nelle vene di ogni testo. Come se esibire fosse negare. E c’è un tentativo di ricostruzione, qualcosa di molto simile al kintsugi. Questa parola, che ci arriva da una delle declinazioni dell’estetica zen, indica alla lettera l’atto di riparare con l’oro, con piccole venature d’oro, un qualsiasi oggetto di uso comune che si fosse rotto. Il valore nasce dalla ferita, da una mancanza di unità si configura un nuovo principio di unità. Queste prose sono l’oro con cui la Mancinelli fascia e accudisce.


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