Ma a chi giova una situazione come questa? Chi si avvantaggia dell’uso libero e indiscriminato del marchio TRENTODOC, purché nel rispetto delle linee guida dell’applicazione grafica, ma neanche tanto minuziosamente, e purché la bottiglia contenga vino elaborato nel rispetto del disciplinare della denominazione TRENTO. Ce lo chiediamo da anni. E me lo chiedo anche oggi dopo aver scoperto casualmente l’etichetta romana “Giulio Bernabei”, su cui, se non vado errato, compare il famigerato marchio.
Dunque, niente di male se un’azienda commerciale decide di fare un completamento di linea, includendo anche un TRENTO con un brand personalizzato. Anzi, tutto sommato, questo è il segno che il m.c. trentino gode di una certa reputazione, tale da diventare appetibile anche per aziende non trentine. E’ tutto lecito, tutto legittimo, tutto giusto.
Poi, però, ci si chiede, perché oltre alla denominazione, a queste aziende è stato concesso anche di usare il marchio commerciale e collettivo, nato nel 2007 in ambito provinciale, a tutela e a promozione delle aziende trentine e del loro prodotto? Perché qui non stiamo parlando di bulloni o di microchip. Stiamo parlando di territorio e di filiera agro-alimentare, una delle poche risorse che producono marginalità proprio grazie ad una trasparente, rigorosa e garantita connessione con l’area di provenienza.
Capita, invece, che tutto questo sia possibile grazie all’accordo di un paio di anni fa, stipulato fra camera di commercio di Trento e Consorzio Vini, accordo con il quale si trasferiva la gestione del marchio dalla prima al secondo. Escludendo Istituto Trento Doc. E lasciando nella disponibilità di tutti i produttori, imbottigliatori e commercianti la possibilità di usare la dicitura TRENTODOC. Una contraddizione patente. Che porta dritta dritta ad alcuni paradossi.
Uno è questo: la dicitura commerciale è nella libera disponibilità di tutti, anche di chi non aderisce ad Istituto. E allora perché aderirvi e spendere soldi per farlo?
Un altro è questo: i produttori che aderiscono all’Istituto investono soldi, risorse ed energie per promuovere il marchio. Altrettanto, anzi molto di più, fa la Provincia di Trento – a mezzo di Trentino Marketing – , con trasferimenti – oltre a soldi anche personale – dedicati. Le ricadute positive, ammesso che ci siano, avvantaggiano il marchio. Anche se il marchio è appiccicato sopra bottiglie che hanno il cuore e il portafogli a Roma, a Trapani o a Berlino. Aziende che acquistano da terzisti trentini il prodotto già bello pronto e confezionato. Aziende che probabilmente sono perfino all’oscuro dell’esistenza di un Istituto di Tutela e al suo funzionamento non contribuiscono e non ne sono attori, né protagonisti né ambasciatori. Del resto questi non sono fatti loro.
Attenzione non stiamo parlando della denominazione di origine, che tutela la provenienza del prodotto e lo garantisce presso il consumatore, mettendo in secondo piano il brand commerciale. No, qui stiamo parlando del marchio collettivo TRENTODOC, invenzione politica della seconda metà degli anni Duemila, che aveva come obiettivo quello di “creare comunità” fra i produttori. Qualcosa in più e di diverso, insomma, rispetto alla semplice denominazione. Perché se marchio e denominazione si sovrappongono anche nella modalità di fruizione, ci tocca dire che le due cose sono uguali. E se sono uguali, una, la più costosa per le casse pubbliche, magari è di troppo.
Ma allora perché si è scelta questa strada? Cui prodest?
Io un’idea ce l’ho ma non ve la dico. E non parlatemi di pasticcio e di pasticcioni. Perché non sarebbe realistico.