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George e Teresa si sono ritirati a vivere in un castello che, tranne per una striscia di terra attraverso cui è collegato alla terraferma, è lambito da ogni lato dal mare. Ogni notte quest’unica strada viene sommersa dall’alta marea, rendendo la dimora, teoricamente, un eremo inaccessibile. Immagine fisica per cul-de-sac, espressione che dà il titolo alla pellicola e indica uno stato mentale dal quale non si è in grado di uscire.
Roman Polanski, abilissimo tessitore d’immagini, avvezzo a trasformare in visione l’essere dei suoi protagonisti, traccia in questa commedia nera dal gusto estremamente grottesco, lo stato di una borghesia sull’orlo del tracollo, bramosa ma incapace di superare i propri limiti interiori. I due sposi novelli che, infatti, hanno deciso di abbandonare il conformismo del quotidiano al fine di dedicarsi a un’esistenza, per così dire bohèmienne, dimostrano fin dalle prime battute l’incapacità di dare forma al loro desiderio.
Inettitudine che potrebbe essere letta sotto due luci differenti: la prima quella della necessità dell’uomo moderno di vivere in una società regolata da ritmi che non sono solo quelli dell’istinto; la seconda, e quella su cui Polanski costruisce il senso del film, è l’impossibilità di vivere liberi quando a costringere l’individuo in una gabbia è sempre e indirettamente il ceto sociale di appartenenza. In tale condizione l’individuo non è realmente conscio della propria situazione e convinto fermamente di essere libero finisce per muoversi come un burattino nelle mani di un destino scelto solo in apparenza.
Permeante è anche la stessa ambientazione scelta dal regista, l’immagine del castello su un promontorio in mezzo al mare: la dimora ricorda in un certo senso la casa de I pugni in tasca, un non-luogo, dove ipoteticamente ogni azione è lecita, ma, a differenza del film di Bellocchio dove i protagonisti, progenitori di un sessantotto ancora da fare, vivono la loro liberazione sessuale indisturbati e in contrapposizione al mondo esterno, i due coniugi trasformano il loro nido nel monito della paresi di Joyce: ombre dei propri desideri. A tal proposito in ogni effetto del castello si ritrova un senso di morte, di fine, di passato: la biancheria, antica, appartenente a un mondo aristocratico che ormai non esiste più; le uova, delle quali il castello è disseminato, tradizionalmente simbolo della vita qui sono ormai inacidite e immangiabili, e la vodka prodotta da Teresa, che pur assimilandosi al senso dell’ebbrezza e della gioia autoindotta, ha un gusto insopportabile tanto da non poter essere bevuta.
In tale situazione di stallo, la forza vitale è rappresentata da Richard, bandito capitato per caso al castello assieme al compare ferito a morte, che irrompe nella vita dei due coniugi a seguito di un colpo andato male. Nelle braccia della dimora pure lui diventa l’ennesima marionetta di una vita inconsapevolmente recitata; in primo luogo rappresenta un diversivo per Teresa, che segue le sue azioni, finalmente appagata da una ventata di novità, dopodiché finisce per diventarne il giocattolo, soccombendo a ogni ruolo che la donna gli affibbia compreso quello di cameriere in occasione di una visita di amici.
Se in ognuno dei tre personaggi principali si può riscontrare ogni tipo sociale ben stereotipato, l’unico a uscire dalla veste impostagli dalla società (quello del profittatore) è Teresa; interpretata da una splendida Françoise Dorléac, bravissima attrice sorella della Deneuve, morta prematuramente in un incidente automobilistico e mai troppo ricordata, che con la sua ineffabilità sembra sciogliersi da ogni ruolo per riscoprire un candore divertito di bambina. Se è vero che la donna ha probabilmente sposato George per uscire da una situazione a lei non congeniale e che, una volta morto quest’ultimo la vedremo scappare con una nuova preda che subentrerà al marito, è anche vero che ella prende la situazione di paresi come un gioco un po’ beffardo nel quale non si capisca quanto sia vittima designata o carnefice: Teresa è davvero la borghese annoiata o sta a tutti gli effetti recitando una parte davanti a consorte e amici solo per divertirsi?
Su questo dubbio si disfa Cul-de-sac, pellicola che con la sua fotografia intrigante fatta di un bianco e nero ovattato e indefinito, i giochi di macchina ondeggianti tra i primissimi piani dei protagonisti e i lunghi campi sugli ambienti, rapisce lo spettatore trasportandolo nel gioco al massacro che vivono i suoi personaggi.
Con questa commedia Polanski ha toccato un argomento molto caro a quel periodo, quello dell’inettitudine della società borghese, ma condendolo con un sarcasmo a volte ricercato a volte del tutto grossolano ha dato vita a una pellicola particolarissima che si trova a metà strada tra l’impegno politico e il nonsense di gusto decadente.
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