«Come mai non hai più scritto nulla?»
Ogni tanto capita anche a me che qualcuno mi rivolga la terribile domanda, incubo di qualunque romanziere, dal dilettante inedito fino a Stephen King.
Si tratta però di un quesito mal posto, perché sarebbe più corretto chiedermi il perché ho smesso di pubblicare, visto che chi ha passato scrivendo all’incirca tre quarti della sua vita vissuta difficilmente smette di farlo, al massimo cambia la maniera e l’obiettivo del suo passar le ore alla tastiera.
Ho smesso di pubblicare, e di mettere insieme pagine pensate per essere poi lette da qualcuno, a causa di tutti i caotici e contraddittori cambiamenti che hanno stravolto il mondo del libro negli ultimi quindici anni: la fine dell’autorevolezza culturale dei grandi marchi (i quali, per tentare di sopravvivere, sono costretti a rincorrere le mode del momento come una volta facevano solo le riviste “Debby” e “Cioè”) mescolatasi, in un paradosso diventato realtà,con un sempre crescente sovraffollamento dell’offerta e il conseguente moltiplicarsi del numero di piccoli editori pronti a regalare a chiunque (me compreso) la possibilità di finire per almeno una decina di giorni in libreria, trasformando quello che dovrebbe essere per antonomasia un mondo in mano a un’intellighenzia meritocratica in un gran bazar in cui vince chi sa urlare con voce più potente degli altri.
Insomma… a pubblicare un romanzo oramai son capaci tutti, e allora che gusto c’è?
Potrebbe avere un senso se essere presente con la tua operina nel catalogo Amazon servisse ancora a farti incontrare delle persone, a scambiare idee con un lettore, a partecipare a una serata-dibattito, a discutere con qualcuno a cui ciò che hai scritto non è proprio andato giù; ma in quest’epoca di mobilità ossessiva e condivisioni virtuali nessuno incontra più nessuno, quindi tanto vale evitarsi lo sbattimento.
Un romanziere finisce sempre col volere molto bene ai personaggi a cui prova a dar vita, e sbatterli nella baraonda di una folla dove posso solo smarrirsi non è certo un atto di amore, specie quando – come accade per il 99,99% dei libri vomitati sul mercato in questi anni di publishing selvaggio – non sono nemmeno in grado di stare in piedi sulle loro gambe abbozzate.
Il modo migliore per valorizzare il proprio lavoro – indipendentemente dalla sua qualità – è quello di non metterlo mai e poi mai a servizio di un narcisismo egocentrico da quattro soldi per soddisfare il quale non è certo necessario dare alle stampe 300 sudate pagine di un romanzo: pubblicare su Facebook una foto del proprio culo garantisce più o meno lo stesso indice di gradimento, ma con una fatica incommensurabilmente inferiore.
Insomma… non è affatto vero che non ho più scritto nulla. Da oltre un anno – quando gli impegni lavorativi coi quali mi guadagno il pane me lo consentono – sto lavorando a costruire i personaggi, l’ambientazione e l’intreccio di quel romanzo che sento per me necessario. Ma pubblicare tanto per farlo è un bisogno che non ho più da tempo. Magari prima o poi la voglia tornerà, se un giorno mi capiterà di considerare un romanzo davvero finito, davvero compiuto, chiuso, portato al massimo del suo potenziale narrativo e stilistico. Chissà. Fino ad allora, ogniqualvolta avrò bisogno di trenta secondi di visibilità, potrò sempre pubblicare una foto del culo.
"Bum painting", by Gillian Carnegie