“Ognuno è ciò che cerca”. Questo il payoff della settima edizione dell’evento gastronomico Culinaria, inaugurato ieri mattina a Roma, in zona circo Massimo, e in programma fino a domani, lunedì 12 marzo.
La presentazione della rassegna e gli slogan di accompagno facevano ben sperare: ricerca delle origini delle identità, delle nuove sperimentazioni in atto…proprio quello che stavo cercando e che normalmente mi aspetto da una manifestazione che si occupa di gastronomia!
E invece? Mi ritrovo solo due stand (chiamati station) dove si alternano chef stellati provenienti da diverse regioni italiane che propongono, salvo rare eccezioni, piatti tradizionali leggermente rivisitati, spesso senza slancio e senza coraggio, come il cannolo siciliano rivisitato in chiave moderna: sfoglia di frappa al cacao senza strutto (ma comunque fritta) condita con gelato di ricotta e crema di liquerizia e uvetta imbevuta di aleatico viterbese.
A questo bisogna aggiungere gli spazi insufficienti e rumorosi (specie quello dedicato alla scuola di cucina dove la maggior parte degli spettatori erano in piedi), con pochi posti a sedere, stand inadeguati ad ospitare il vasto pubblico di appassionati accorsi. Da una manifestazione che si propone di enfatizzare le tipicità locali mi attendo una grande varietà di produttori territoriali provenienti da ogni dove: dall’Alto Adige alla Sicilia, passando per Veneto e Calabria. Per non parlare del numero esiguo di degustazioni dedicate ai visitatori. Davvero troppo poco per un biglietto di ingresso di 10 euro.
Una delle poche eccezioni è stato lo show cooking di Daniele Usai, incentrato su un ottimo risotto di triglie, ananas, topinambur ed erbe aromatiche. E proprio alle piante in cucina è stato dedicato un intero stand popolato da timo, maggiorana, rosmarino e molto altro.
Prezioso anche l’intervento di Gabriele Bonci, personaggio strambo, che litiga continuamente con la lingua italiana, ma incredibilmente – quando meno te lo aspetti – esprime idee e concetti innovativi di grande spessore, senza troppi giri di parole.
Dopo aver attaccato gli improvvisati della gastronomia, che usciti dalla cucina di casa indossano con disinvoltura la divisa da chef senza aver avuto esperienza nel settore, Bonci si è lanciato nella preparazione del pane di una volta, con un impasto a base di farina integrale, cereali di origine antica e scarti di birra, a base di lievito, luppolo e cereali: una miscela di ingredienti che rievoca i profumi della terra e della campagna, perché le materie prime vengono da lì.
“La cucina è dei contadini – ha detto il panificatore romano – quando compriamo un prodotto ci dobbiamo sempre chiedere su quale suolo è cresciuto”.
E poi il riferimento all’aspetto mistico del pane: “per il vino, la cioccolata e l’olio esistono delle schede tecniche di degustazione, per il pane no. Il pane non si può descrivere e catalogare, non lo si può giudicare, perché è come Dio. Al di sopra di tutto”.
E’ la prima volta che sento esprimere questo concetto da un panettiere: normalmente viene da sociologici, storici del cibo, enogastronomi…e invece Gabriele, nella sua semplicità, associa l’impasto fatto di acqua, farina e lievito a qualcosa di divino…di sublime. A patto naturalmente che la farina sia di ottima qualità, come quella del molino Marino, prodotta nelle Langhe e macinata a pietra.
Quando gli ingredienti sono eccellenti, esiste forse qualcosa di più buono del pane? No, e in fatto di pane i lettori di questo blog ne sanno qualcosa…