Cult è il suo milleseicentesimo film, credo, è guarda caso un mockumentary fatto con due yen e attori trovati a casa rapendoli per strada, ed è un film che non si prende molto sul serio, come a dire “non ho i soldi ma faccio lo stesso un horror perché mi va”, che in fondo è una cosa giusta e onorevole e pregherei davvero Gesù affinché qualsiasi autore lavorasse sulla base di questo assunto, ma qui si sta parlando di Shiraishi, e Shiraishi è pur sempre quello di Occult, che era un altro mockumentary horror bello almeno fino a quando non si arrivava al finale, che prendeva per il culo chiunque alla stregua di un Jerry Calà che fa una scoreggia.
Jerry Calà
Il film fa parte di una sorta di trilogia concettuale con altre due pellicole dirette da altrettanti registi, TheCrone di Eisuke Naito e Talk to the Dead di Norio Tsuruta, che dovrebbero riprendere tematiche o qualche argomento rubandoseli l’uno dall’altro: non li ho visti, e non ho questa grande curiosità, in fondo Tsuruta, dopo un buona carriera, ha fatto P.O.V. e tendo a così a scansarlo tutte le volte che posso. Del suo collega, in tutta sincerità, mi fido anche meno.A ogni modo, la sorpresa contenuta in questo Cult è che tutto inizia come un qualsiasi film di Shiraishi degli ultimi anni, ma mentre ci si aspetta il peggio a causa di un cast scarso (con tre scolarette vestite da giornaliste che ridono e parlano per ore del più e del meno mentre fingono di lavorare), dialoghi improvvisati (ho detto che parlano per ore del più e del meno?) e poca consistenza atmosferica (almeno nella sua prima metà, Cult è il documentario definitivo sul disagio giovanile, o, boh, un video caricato su youtube per descrivere la noia), la storia imbocca una strada sorprendentemente seriosa, prende forza e si rialza trasformandosi in un horror quanto meno decente e con un suo fascino che si può vedere sino alla fine.
Serietà
La serietà è un argomento bello tosto con un regista del genere, e per buona parte del film si rimane abbastanza confusi dal modo in cui Shiraishi tratti magia nera ed esorcismi: nella fattispecie, l’inutile lavoro di un instancabile monaco che recita mantra a profusione e toglie spiriti dalla schiena dei componenti di una famiglia sfortunata fino a quando si scontra con uno evil one troppo forte da battere, è visualizzato con un realismo tragicomico dove le infinite preghiere, riprese interamente con gesti, sbuffi e urla, vengono viste dalle tre giornaliste protagoniste e dallo spettatore con lo stesso occhio stralunato e poco convinto. Si ride ma non si riesce a smettere di guardare perché l’imbarazzo del povero monaco nel subire la continua sconfitta è gestito quasi con commozione, si vedono la sua fatica e la sua disperazione e, in questo momento, scatta un meccanismo insospettabile dove l’orrore penetra nella realtà in una maniera così sottile che quasi non ci si accorge, eravamo distratti da quel povero cristo che pregava come non ci fosse un domani. E infatti, quando l’infernal one inizia a manifestarsi, nonostante un’effettistica digitale grossomodo terribile e un uso esagerato delle zoomate per ricordare al pubblico che questo o quell’altro particolare sono sospetti, Cult ingrana con una combo di apparizioni riuscite (la prima, in particolare, ha una sua inaspettata efficacia) e strani avvenimenti sanguinolenti utili a creare proprio quell’atmosfera maligna che nella prima parte Shiraishi sembrava facesse di tutto pur di evitare.Malignità
Il comportamento dei vicini, il crescendo di stranezze, il senso cosmico che si avverte nelle intenzioni e nelle movenze aliene dell’entità avvicina addirittura il film a un’esperienza lovecraftiana sufficientemente riuscita, tanto che alla fine, pur nella sua astrusa conclusione – che rimane però in linea con l’accumulo di situazioni sinistre –, se ne esce con una certa soddisfazione, consci di aver visto un film povero, realizzato in fretta e con mezzi di fortuna, ben lontano dall’essere bello ma con un suo decoro horror su cui era davvero difficile scommettere.