Sono 14 milioni, vivono dall’Europa all’Australia. Come gli ebrei sono stati perseguitati dal nazismo, ma nessuno li ha mai risarciti. Oggi molti li temono ma pochi conoscono la loro storia e la loro cultura. Che ha oltre mille anni.
Preferiscono essere chiamati Rom, che nella loro lingua, il romanes, significa “uomo”. E definiscono gagè, “gli altri”, il resto del mondo, cioè i non Rom. Il gagio (singolare di gagè) è per loro un credulone, superstizioso, troppo attaccato alle cose, talvolta violento. I gagè, dal canto loro, li chiamano zingari e pensano che siano trasandati, infidi, ladri, senza cultura. Ma generalizzare è sbagliato: nell’Est europeo, e in molti casi anche in Italia, i Rom vivono in normali case, lavorano, studiano e la convivenza coi gagè è tranquilla.
I Rom bosniaci chiamano l’Italia “il Paese dei campi”, intendendo i campi nomadi, recintati. Da noi fanno spesso la questua, a volte furti. Le baracche fatiscenti prendono fuoco. Politici e cittadini fanno manifestazioni. I sindaci sono preoccupati. Ma se si legge il libro dell’antropologo culturale Leonardo Piasere I Rom d’Europa (ed. Laterza) la prospettiva cambia. «Quando arrivano in Italia dai Paesi dell’Est, i Rom vengono “zingarizzati”, cioè messi a vivere nei campi secondo lo stereotipo dei nomadi sporchi con il carrozzone» spiega Piasere, che insegna all’Università di Firenze. Un modo antiquato di affrontare il problema.
LA LORO STORIA: VENUTI DALL’INDO. Ma i Rom sono sempre stati nomadi? È vero che non hanno cultura? Perché sono visti come accattoni? Chi sono?
I 7 milioni di Rom che vivono in Europa discendono da una popolazione che parlava una forma volgare di sanscrito, il praclito. Nel 1000 d. C. circa, lasciò il delta dell’Indo, fra l’India e il Pakistan. Vi erano esperti nella lavorazione dei metalli, chiamati athinganoi, da qui “zingari”. In 4 secoli i Rom si insediarono in molti Paesi europei, a partire dai Balcani. «Già da allora» spiega Piasere «i Rom non si comportavano tutti allo stesso modo, cambiavano economia e ritmi di vita secondo le opportunità offerte dai Paesi ospitanti».
Nella cartina, l’espansione dei Rom. Non è avvenuta con guerre, ma adeguandosi alle economie locali.MAESTRI DEI METALLI. Li si poteva suddividere in 3 aree geografiche. La prima, quella Balcanica, durante l’impero Ottomano li vide sviluppare un gran numero di professioni, soprattutto artigianali. Alla fine del XVI secolo erano tutti censiti, abitavano in dimore fisse e pagavano le tasse. Erano insomma ottimi contribuenti, divisi in corporazioni: lautari (musicisti e costruttori di strumenti musicali), fabbri, orefici, sarti, macellai, venditori di cavalli, “veterinari”, contadini liberi.
La seconda area, che corrispondeva ai principati di Valacchia e di Moldavia (oggi parte della Romania), li vide invece nello scomodo ruolo di schiavi. Erano proprietà del principe, e lui poteva permettere loro l’esercizio di mestieri itineranti (acrobati, addestratori di orsi, giocolieri), lingurari (costruttori di utensili di legno), calderai e ramai, a patto che gli pagassero i tributi. Salvo venire donati, con l’intera famiglia, a un monastero ortodosso a saldo dei peccati del principe. Spesso i Rom erano schiavi di feudatari e monasteri che li utilizzavano nei campi. E rimasero tali fino alla metà dell’800 (altro che nomadi…), quando, con le rivoluzioni liberali, fu abolito lo schiavismo nella regione.
Queste prime due aree, la Balcanica e la Rumena, oggi ospitano il 90% dei Rom europei. E non per caso sono sedentari, vivono in vere case con bagno e cucina, sanno fare i mestieri più diversi, coltivano la terra. In Romania, 1 milione 800 mila Rom, i furti da loro commessi sono vicini allo zero. Lo afferma l’Interpol.
Ma c’è una terza area, conflittuale: è l’Europa occidentale, dove si protende il “Paese dei campi” (in Italia i Rom sono lo 0,15% della popolazione: circa 87.000 persone). Come sono arrivati?
PELLEGRINI “RACCOMANDATI”. Fra il 1417 e il 1430 furono notate, dall’Italia all’Olanda, compagnie di pellegrini che si dicevano “egiziani”. Erano condotte da presunti conti e duchi, composte da uomini, donne, bambini, cavalli e cani. I cronisti del tempo raccoglievano sempre la stessa versione: “Siamo egiziani, ma cristiani, dobbiamo espiare una penitenza per un peccato di apostasia che ci condanna a un pellegrinaggio di 7 anni. Per favore aiutateci”. Le lettere erano firmate da Sigismondo, imperatore del Sacro Romano Impero, dal papa o da altri grandi. Alcune erano vere, molte altre false. Risultato: molte città fecero cospicue donazioni ai sedicenti “egiziani”, da cui vengono alcuni nomi che oggi indicano i Rom, come gipsy o gitani. Ma un pellegrinaggio credibile non poteva durare in eterno.
VIA ALLE PERSECUZIONI. Si diffusero così bandi per cacciare i Rom. Erano repressi di pari passo con la nascita dell’industria nell’Europa occidentale, che richiedeva mano d’opera salariata e non consentiva forme di accattonaggio o mestieri da girovaghi. Nonostante la repressione (in alcune fasi chi uccideva uno zingaro aveva diritto ai suoi beni), i Rom si legarono a vari territori, da cui presero il nome, come i Sinti piemontesi, i Sinti lombardi, i Kalè andalusi, i Manouche francesi, i Romanichals gallesi.
Il 50% della loro lingua rimase quella delle origini, per il resto acquisirono termini delle lingue locali. «In questa parte d’Europa, dove tanti popoli avevano dovuto lottare per la loro identità» spiega Piasere «i Rom si mossero molto cautamente. Non fecero mai guerre e per non essere cancellati, si sparpagliarono in piccole unità, famiglie allargate che ogni tanto si riunivano, ma dovevano essere mobili e sfuggenti ai controlli». Il nomadismo fu quindi un adattamento di fronte alla repressione, non una condizione etnica.
«Poi arrivarono le persecuzioni di Hitler: 500 mila Rom eliminati nei campi di concentramento» spiega Ernesto Rossi, presidente dell’associazione culturale Aven Amentza. Si occupò di loro anche il fascismo, deportandoli dalla Slovenia italiana nel campo di Tosci (Te) e rinchiudendo i Sinti abruzzesi a Boiano (Cb).
Alcune circostanze accomunano Rom ed ebrei: essere stati entrambi schiavi. I primi accusati di essere della stirpe maledetta di Caino, i secondi di deicidio. Ariani degradati gli uni, razza inferiore gli altri. Dai nazisti gli ebrei subirono la shoàh (distruzione), i Rom il porrajmos (divoramento). Ma se ai primi la Germania ha riconosciuto i danni, ai secondi nessun rimborso. Il motivo è che i Rom non sarebbero un popolo, un’unità culturale, ma una condizione. È vero?
DOPPIA LAUREA. Un giornalista del National Geographic organizzò un lungo viaggio con un romanichal, Rom gallese, e dimostrò che egli poteva comunicare, a parole, a gesti e con le canzoni, con i Rom di diverse parti del mondo. Se gli ebrei hanno avuto la Bibbia, come scrigno d’identità culturale, i Rom hanno sempre avuto la musica. «Che ha influenzato e arricchito compositori come Johannes Brahms, Franz Schubert, Maurice Ravel, Igor Strawinsky, Peter Ciaikowski» spiega Santino Spinelli, rom abruzzese, 2 lauree (in musicologia, lingue e letterature moderne) e docente all’Università di Trieste. «Per arrivare a Goran Bregovic, che utilizza a piene mani la musica dei Rom macedoni. La musica rom ha fondato il jazz europeo. È un modo per comunicare. Nella musica c’è la lingua, l’etica, la filosofia di vita, la narrazione, la nostra memoria».
C’è poi un altro nocciolo duro della cultura rom: i riti funebri. «A volte, quando una persona muore, vengono bruciati tutti i suoi beni, roulotte compresa, a garanzia che l’eredità non crei dissidi fra i parenti e dislivelli sociali nel gruppo» spiega Rossi. Soprattutto nei Paesi dell’Est, le sepolture sono ampie: trovano posto il letto, il comò, i quadri, modellini di moto e macchine di lusso. Ricordano quelle degli Egizi, per cui gli oggetti si animavano a beneficio del morto quando la tomba veniva chiusa.
Altra tradizione, la legge rom. Non si sovrappone a quella dello Stato, ma i Rom la rispettano alla lettera; regolamenta liti, danneggiamenti, controversie matrimoniali. Se il fatto è grave, i giudici vengono da altre comunità, a garanzia di equità. La pena è sempre un risarcimento. «Sia chi vince sia chi perde» spiega Rossi «deve poi pagare una festa a tutta la comunità, una forma di riconciliazione collettiva».
MITI DA SFATARE. Altri tratti culturali dei Rom emergono dalle accuse loro rivolte. Sono sporchi? Quando non c’è elettricità o acqua calda è difficile lavarsi in 200, d’inverno, magari con un solo rubinetto. I Rom hanno paura dell’impurità, come gli indiani e gli ebrei. Hanno 14 contenitori diversi in cui lavare le loro cose: non devono entrare in contatto le pentole con piatti, i vestiti dei maschi con quelli delle femmine, gli indumenti intimi con gli altri e così via. Le nostre tradizioni di camping e barbecue sono copiate dai Rom. Ma loro trovano disgustoso tenere la toilette nella roulotte, come fanno i gagè…
Le donne rom sono disponibili? Favole. Evitano il contatto con i gagè, per paura delle impurità. Quasi sempre si sposano vergini e talvolta espongono il panno insanguinato come prova. Vivono in una società maschilista, dove però è severamente censurato l’uomo che non osserva i doveri familiari.
I Rom predicono il futuro? «Noi per primi non ci crediamo» spiega il leader di un campo a Milano. Le donne confermano: «è un mestiere, facciamo finta». La chiaroveggenza è un modo di trasformare la loro diversità agli occhi dei gagè, insicuri e superstiziosi, a proprio vantaggio.
I Rom rubano, sono violenti? Nei processi interni le sentenze sono severe nei casi di violenza, anche verso un gagè. «Ma se un rom ha rubato con destrezza e per necessità» spiega un giudice rom «per noi non c’è reato».
PORTA A PORTA. Perché chiedono la carità? Erano commercianti porta a porta. «Tornavano negli stessi luoghi a vendere oggetti per la casa e l’agricoltura» spiega Rossi. «Se non vendevano, chiedevano da mangiare o qualche spicciolo. Il manghel, che significa sia vendere sia elemosinare, era accettato un tempo nelle campagne (basti pensare allo zingaro Melquiades, in Cent’anni di solitudine: porta notizie e innovazioni, come la calamita). Con il potenziamento della distribuzione commerciale, i Rom hanno perso questo ruolo. Rimane la questua». Inoltre, migliaia di Rom che lavoravano con le giostre e i circhi, a causa della crisi di questo settore, sono rimasti disoccupati senza gli aiuti sociali che spettano ai gagè.