L'impegno sociale al culmine del suo più masochistico contrappasso è l'utopia realizzata d'un certo frangente dell'arte, quella che brama la partecipazione popolare, il comune interesse, il versante utile e funzionale anche del dichiaratamente inutile. Il torpore dell'etica converge con l'estasi an-estetica, l'opera si fa e si disfa nella sua più totale mancata intenzionalità.
Un punto di raccolta e l'azione corale è presto fatta. Deposito degli scarti, rifiuti dell'abbondanza ostentata alla vista di tutti. Quando l'affetto vomita noncurante il precipitato deteriore del più rituale natalizio banchetto, buoni propositi impacchettati, strozzati, accumulati, infiocchettati e gettati all'ammasso. Sculture viventi e multisensoriali che mescolano organico e inorganico, dal carattere effimero e continuamente cangiante, sinestesia letteralmente mozzafiato. L'interazione con il pubblico, qui più che mai l'artefice stesso dell'opera, è risaputo e riciclato topos, l'origine e l'approdo della connotazione sociale dell'atto artistico. Qualcuno verrà. O forse sverrà per l'intensità dell'odore o per eccesso di empatia. Ci sarà chi si arrischierà a tuffarcisi dentro, chi proverà a sottrarne furtivamente un cimelio. Il sogno del rigattiere è sempre gettato dietro l'angolo. O nel ventre oscuro d'un cassonetto. In tanti preferiranno ammirarla a distanza, timorosi d'esser travolti da una vertigine dei sensi. E così i maleodoranti scettici nei confronti dell'arte contemporanea avranno di che rammaricarsi nel non averne compreso la carica trascinante d'una installazione collettiva di tal fatta, così facile da riprodurre in ogni angolo della terra. Il successo va ricercato nella nostra sempre più spiccata voglia di comunità, nel reciproco confronto, la ricerca fragile d'un momentum (il lancio del sacchetto richiederebbe uno scritto a parte) che poi si fa monumentum, deposito non si sa quanto provvisorio di gesti singolari. L'arte per tutti. Tra installazione e land art, nel superamento dei luoghi deputati, lo strabordamento oltre il parapetto della decenza ne suggerisce un inaspettata ma azzeccata integrazione (assorbimento?) al contesto urbano, nel quale trova terreno di fertile fastidio. (l'opera d'arte che sia tale deve disturbare, esorbitare, significare?). Dente cariato d'ogni armonioso piano di decoro, metastasi diffusa del mi(ni)stero dei beni culturali.
Addobbi post-natalizi. Già consunti e consumati. (come noi e di più). Breve durata e lunga gittata. Partecipative, comunitarie, effimere e non organizzate, queste opere senz'autore sono aggregati d'oggetti fisici e insieme indiscutibilmente sociali, forse non con una portata conoscitiva ma di certo incline a provocare sentimenti in forma individuale o generalizzabile. Ready made involontario indotto dalla coazione a ripetere l'errore, sono l'aldilà del mercato e delle merci. La città si veste e riveste, diventa museo a cielo aperto, o meglio spazio espositivo per un'arte diffusa, fruibile a tutti, senza barriere. Un merzbau che è simbolo di comunione universale. L'olezzo dello spirito arriva fino alle nostre narici. Chi è netto scagli il primo sacco, dirà il prossimo profeta. Il bene (alimentare) traboccherà dai contenitori, verrà fuori dai divieti che ne limitano gli spazi. Ne siamo certi, conquisteranno le nostre piazze se non i nostri cuori.