Flavio Pagano Perdutamente (Giunti, 2013, € 12,00, pp. 238). «Quando uno di noi si ammala di Alzheimer, l’esistenza di coloro che gli sono intorno non viene spinta verso gli interrogativi della morte, ma della vita. Perché l’Alzheimer è la malattia che più di ogni altra appartiene alla vita. Ne possiede tutta la follia, l’energia brutale e misteriosa, l’imprevedibilità. Rende concreta l’immaginazione e dissolve la realtà. Rimescola il tempo». Flavio Pagano racconta l’Alzheimer di sua madre, e come lui e tutta la famiglia si siano trasformati in “caregiver” estremi, capaci di accudirla con fantasia, inoltrandosi anche nell’assurdo. E ridendo, ridendo fino alle lacrime.
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Il giorno che la mia bisnonna si ruppe il femore, immaginavamo come sarebbe andata. Aveva quasi 90 anni e i successivi otto li avrebbe trascorsi allontanandosi piano piano dal mondo. Gli occhi più azzurri, i capelli più bianchi, la pelle più trasparente. Sbiadiva, ma col sorriso sulle labbra. La nonna si curava di lei come di una bambina, stava al gioco: era sua figlia ma si lasciava scambiare per sua madre, e noi pronipoti ridevamo.
«Pina, chi l’è quel om chì» le chiedevamo per stuzzicarla indicando suo marito Carlo, il bisnonno. «Al so no» diceva lei allargando le braccia. E poi, senza che lui sentisse: come si chiama tuo marito? «Angelo», rispondeva la bisnonna con un guizzo negli occhi. Il cugino che le avevano impedito di sposare. Ridevo. Avevo 16 anni e troppo poca esperienza della vita per capire che l’Alzheimer non è semplicemente una malattia – forse non a caso se ne sa così poco e non si trova una cura.
Quando mia nonna, dopo aver vissuto con un marito in mare a guidare petroliere, dopo averlo perso a 48 anni, aver cresciuto da sola tre figli sani e uno tetraplegico, dopo essersi presa cura dei genitori fino ai cent’anni e aver perso la casa per colpa di Malpensa, quando dopo tutto questo ha deciso di ritirarsi nei suoi vuoti di memoria, di galleggiare in un silenzio cotonoso e morbido e dispensare sorrisi riconoscendo solo chi pareva a lei, ho pensato che chiamare l’Alzheimer malattia è ingeneroso.
Ora che di nuovo nella mia famiglia si agita lo spettro di questa forma di demenza (che definizione orrenda: e se fosse una diversa forma di sapienza, in cui smettere di sapere ciò che si sapeva?), sono sempre più convinta che non si tratti di un caso. Non ci si ammala di Alzheimer per niente.
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Con napoletana inclinazione a sceneggiare la vita e a farne teatro dell’assurdo, Flavio Pagano racconta come lui e la sua famiglia si siano fatti “caregiver” estremi della madre indementita: decisi ad accudirla attivamente, a stimolarla nelle attività che ancora le erano possibili, come giocare a carte e cantare. Stare al gioco dei suoi scambi di persona, delle bizzarre ricostruzioni, dei suoi umori ballerini, dei suoi bisogni mistici. Fingersi Geppino, un vecchio zio, se così lei vuole. Fingersi persino San Gennaro. E ridere a crepapelle di quella follia che, con l’Alzheimer, si installa prepotente dentro casa. Ridere e farci amicizia, come capitava a me con la bisnonna e poi con la nonna.
Il libro di Flavio Pagano è un capolavoro di intelligenza del cuore. Perdutamente, s’intitola, ed è già grandioso. Non c’è avverbio più dolce, nell’amarezza. Si ama perdutamente, ed è questo che accade se riesci a capire che il malato di Alzheimer non è malato: è un rifugiato. Un folle, forse. Un visionario. Uno che ha “deciso” che della vita ne ha avuto abbastanza. De hoc satis. E allora lanciamo in aria le carte, scombiniamo tutto, giochiamo a un gioco nuovo. Solo chi ci sta, vince.
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