Negate tutte le strade interpretative (esultiamo per l’assenza di quell’abusata psicologia bignamesca nelle vesti di “spiegazione del disturbo”), delle cause si può anche fare a meno (possibilmente: una madre in prigione, è lì e basta), mentre gli effetti dirompono tacitamente nel tessuto esistenziale, ne diventano parte, con grande sgomento spettatoriale, tramite una mimesi non dissimile alla neve che coprendo tutto rende difficile capire chi è vivo e chi non lo è. Non si tratta perciò di un’indagine mentale con intenti eziologici, è più drasticamente un incidere su pellicola la naturalità (!) degli accadimenti che non ha logica (una tigre?) ma è e basta: le cose succedono e i vari personaggi con una lucidità annichilente controbattono alla variazione, chi infischiandosene (un lago di sangue in una stanza del motel, che sarà mai?), chi rimanendone ammaliati (la morte come comun denominatore della propria vita), chi perseguendo un’inintelligibile condotta (la folle protezione paterna obnubila la ragione).
Il film di Côté si aggira con disinteresse tra i paesaggi imbiancati e (r)accogliendo quanto esposto sopra non si dimentica di caratterizzare un personaggio come Jean-Francois capace di suscitare emozioni più lontane, tanto che da una presa di distanza nei confronti della sua morale aberrante, si passa ad una sottaciuta compassione generata dal suo misero status: un padre incapace di fuggire, un povero cristo a cui restano solo timidi sogni e un po’ di amore preconfezionato. Côté non molla il suo cinismo nemmeno alla fine in cui mostra con noncurante implacabilità come Jean-Francois ha risolto i suoi problemi: impossibilitato a cambiare il mondo intorno a sé, cambia se stesso, almeno esternamente.