Strana inversione di marcia per Don Mancini, faccio molta fatica a capire la scelta di un back to roots nella saga di Chuky quando gli ultimi due capitoli si erano mostrati come piccoli e inaspettati gioiellini nel divertire, parodizzare e citare selvaggiamente come forse non lo è mai stata, al di là della sua importanza concettuale nella scena horror, la trilogia iniziale. Via qualsiasi accento ironico, via spunti e invenzioni, via personaggi indovinati, via addirittura le creazioni splatter negli omicidi, in questo stanco, dannoso Curse of Chucky è difficile salvare anche solo qualcosa a causa della noia sconvolgente che investe e sotterra tutto quanto. Siamo dalle parti di un fiacco tv movie a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta a partire dalla scelta dei personaggi (una famiglia d’alta borghesia non troppo unita che si riunisce a causa di un lutto) e dall’ambientazione (una mega villa che poco offre in termini di location), e Mancini non fa nulla per colorire un poco una vicenda vecchia sin dai primi istanti, gestita con una pallida serietà che non fa altro che accentuare la poca consistenza dell’intero progetto.
La prima a morire è una depressa con istinti suicidi e madre di una ragazza in carrozzina (!), e questa esasperata ma grossolana drammaticità è già sintomo di qualcosa che non funziona, ma non c’è modo di scansare l’allarme perché sono soluzioni vecchissime che continuano a ripresentarsi senza mordente e senza forza (il rapporto in crisi tra Barb e Ian, la presenza del prete per alleviare il dolore, la bambina e il legame che stringe con Chucky). E non è un problema di semplice cliché, di sostanza fritta e riscaldata tanto per motivare questo sesto capitolo, non siamo dalle parti del “tutto è già stato scritto e visto così tante volte che…”, Curse of Chucky è un disastro per i lenti meccanismi narrativi, per personaggi senza alcuna virgola caratteriale, per dialoghi tragici e privi di qualsiasi spunto sarcastico, per sequenze che si susseguono mosce e monotono, e anche per gli omicidi, mai così spenti, banali e orfani di sangue (se non per una bizzarra decapitazione, ma è comunque poca cosa).
Certo, si può comprendere quel richiamo eighties, quel collegamento, quell’omaggio ad atmosfere immortali e irreplicabili, ma cosa può trarne anche solo un fan della saga dalla solita bambina che ripete le parolacce che Chucky le sussurra, cosa può incuriosire di una meccanica di morti/incidenti predetta con la sola presentazione iniziale dei personaggi/carne da macello, cosa può spingere a vedere il bambolotto assassino che si limita ad apparire e ad accoltellare le sue vittime per poi ghignarsene via? E non si parli di peccato, che Mancini abbia capacità lo si può vedere dall’asfissiante e disgustosa scena della cena, ma è unico momento, pur nel suo riciclo, in cui si nota un lavoro, una costruzione, una motivazione dietro tutto. Per il resto, l’unica vittoria ottenuta da Mancini nel suo voler tornare alle origini è l’aver gettato via, un po’ come hanno fatto le storiche saghe horror con le loro infinite code di sequel, quell’idea primordiale, quella ferocia genuina e sarcastica che proprio lui aveva saputo risollevare e modernizzato, con Bride prima e Seed poi, dandole nuova energia e motivo di esistere. Cosa che, nel 2013, Curse of Chucky proprio non ha.