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Czeslaw Milosz - Non l'avevo forse detto?, a proposito di Szymborska

Da Ellisse

Unszymborska, milosz breve saggio di Czeslaw Milosz  a proposito di Wislawa Szymborska, da titolo "Non l'avevo forse detto?", inedito in Italia, tradotto dal polacco da Giovanna Tomassucci, che ringrazio. Uno scritto che vuole iscriversi in uno sperabile più ampio dibattito sulla poetessa, uno sforzo di più profonda comprensione sui contenuti, le forme, la poetica, e non tanto sulla Szymborska come "fenomeno" o come moda innescata da un "effetto auditel", come è avvenuto qui in Italia nel febbraio del 2012, né tanto meno come inconsueta "base culturale" di manuali del cosiddetto "humanistic management".
In questo senso di partecipato approfondimento si è mosso il Convegno che si è tenuto a Pisa nel febbraio del 2014, di cui ho dato notizia QUI, con molti importanti interventi. E nella stessa direzione  vuole muoversi il volume che raccoglie gli atti del Convegno e che verrà pubblicato dalla Pisa University press, per la cura di Giovanna Tomassucci e Donatella Bremer. Il libro, che comprenderà  anche un testo inedito di Pietro Marchesani sulle sue traduzioni di Szymborska e un ricordo di Marchesani e Vanni Scheiwiller di Laura Novati, si intitolera': "Szymborska: la gioia di leggere. Lettori, poeti e critici [dedicato alla memoria di Pietro Marchesani]" e sarà articolato in tre sezioni, con i relativi interventi:
1. Ricordi e progetti [con interventi dei polacchi Ewa Lipska, Michal Rusinek, presidente della Fondazione Szymborska nonché storico collaboratore della poetessa, Jaroslaw Mikolajewski, poeta, critico, italianista]
2. Poeti [Anna Maria Carpi, Mariagiorgia Ullbar, Paolo Febbraro]
3. Critici [Alfonso Berardinelli, Roberto Galaverni, Donatella Bremer, Andrea Ceccherelli, Giovanna Tomassucci].
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N.B. Ho aggiunto in calce all'articolo, ad usum lectorum, i testi integrali delle poesie citate da Milosz.



Czesław Miłosz, Non l'avevo forse detto?
[1]

Io l'avevo detto che la poesia polacca era forte e che si distingueva dalle altre del mondo per alcune sue caratteristiche. Quelle stesse caratteristiche sono riscontrabili nell'opera di vari grandi poeti polacchi, Wisława Szymborska compresa. Il Premio Nobel è un trionfo personale della poetessa e allo stesso tempo una conferma del rango della "scuola polacca".

Forse sarebbe perfino superfluo ricordare che la lingua di quella poesia è la lingua di un paese dove si è compiuto su scala di massa un genocidio. I nessi tra la parola e le esperienze storiche possono essere del genere più vario, senza che ci sia necessariamente un rapporto diretto di causa ed effetto. D'altra parte ha anche un significato il fatto che Szymborska – come Tadeusz Różewicz o Zbigniew Herbert – si è trovata a scrivere al posto di una generazione di poeti che aveva esordito durante la guerra e che non le era sopravvissuta.

Con un tocco così delicato, con un sorriso così scettico, così amante del gioco, cosa mai può avere in comune la poesia della Szymborska con la storia del XX o di qualsiasi altro secolo?

All'inizio molto. Nella sua fase più matura invece essa abbandona la raffigurazione di un tempo lineare, un tempo che mira a realizzare un'utopia o che tende verso una catastrofe apocalittica, come in questo secolo che volge ormai allo scorcio tanti si sono figurati con fervore.

La dimensione di Szymborska è personale: è quella di uno specifico individuo che medita sulla propria condizione umana. È vero. Ma questa riflessione è accompagnata da una riservatezza che colpisce. Quasi come se si trovasse a recitare a teatro, davanti ai fondali di una messa in scena precedente, nella quale ogni singola persona viene trasformata in Nulla, in un anonimo… E in un simile contesto non sta bene parlare troppo di sé.

Le poesie di Szymborska trattano di situazioni private, ma tuttavia sufficientemente generalizzate, in modo da poter evitare delle confessioni. Quando scrive di un gatto in un appartamento che si è svuotato improvvisamente, invece di un lamento per la perdita di una persona cara, ci sentiamo dire: "Morire – questo a un gatto non si fa" [La fine e l'inizio[2] 523].

Questa riservatezza, accompagnata da una distanza ironica dal proprio io, potrebbe essere sintomo delle particolari inclinazioni della poetessa: d'altro canto, visto che in ciò si rivela simile a più d'uno dei connazionali del suo tempo, si potrebbe anche sostenere la tesi che quel che la unisce a questi ultimi è il voler dire addio al passato. Anche gli altri lo fanno grazie a una sorta di processo di distillazione di materiali grezzi, non sempre facili da riconoscere.

Per me Szymborska è soprattutto la poetessa della coscienza. Questo significa che si rivolge a noi, che condividiamo la sua stessa epoca, come una di noi, lasciando da parte le proprie faccende private: e tuttavia, anche se si mantiene a una certa distanza, fa riferimento a ciò che ciascuno (o ciascuna) di noi ha imparato dalla propria vita. Ad esempio: non conosciamo forse tutti l'atto di spogliarci prima di un controllo medico o quello di ricordarci dei nostri sogni? O lo stupore per le coincidenze e la lettura della corrispondenza con persone che se ne sono andate?

Perciò, come in certi disegni che riassumono scene di una quotidianità a noi ben nota, in quelle poesie ci riconosciamo suoi consanguinei, con tutta la nostra specifica soggettività, anche se un po' messa tra parentesi. Siamo suoi consanguinei anche perché siamo suoi contemporanei, cioè sottoposti allo stesso circuito di informazioni. Le parole – segnali di orientamento– per noi significano più o meno le stesse cose: la teoria dell'evoluzione, un missile interplanetario, Hiroshima, ma anche Omero, Vermeer, il principio di indeterminazione… quindi l'intero repertorio di concetti impartitici a casa, a scuola o dai mass media.

Le poesie di Szymborska sono costruite con un'arte da giocoliere, che lancia, come palle in aria, gli elementi del nostro sapere comune e che ogni volta ci stupisce col paradosso, mostrandoci una visione tragicomica del nostro mondo di uomini. Vi si esprime una coscienza possibile solo nel "dopo": dopo Darwin, dopo Einstein e dopo molti altri, di cui ha conservato le tracce la civiltà in cui ci troviamo immersi. Di fronte a testi così spensieratamente danzanti che sembrano scritti senza il minimo sforzo, il chiamare in causa i grandi nomi dei luminari della scienza può apparire un po' troppo pesante: ma è proprio grazie al fatto che essi sono esistiti che il pensiero di Szymborska e il nostro – che lo si voglia o no – è divenuto complesso e pieno di sfaccettature. Lo si vede al meglio laddove vengono poste le domande sull'uomo, anello della catena evolutiva.

Cosi ad es. la poesia Le quattro del mattino contrappone alla nostra inquietudine, che non ci lascia dormire, l'automatismo del girovagare delle formiche:

Nessuno sta bene alle quattro del mattino.

Se le formiche stanno bene alle quattro del mattino

– le nostre congratulazioni. E che arrivino le cinque,

se dobbiamo vivere ancora. [Addio allo Yeti 91]

Un'altra poesia, Lode della cattiva considerazione di sé, cancella ogni confine tra la coscienza pulita, che contraddistingue gli altri esseri viventi, e il tormento morale che solo a noi appartiene:

Uno autocritico sciacallo non esiste.

La locusta, l'alligatore, la trichina e il tafano

vivono come vivono e ne sono contenti. [Grande numero  395]

La poesia Autonomia inizia con "In caso di pericolo, l'oloturia si divide in due", e il ragionamento che segue è la rivendicazione del privilegio umano di creare l'arte malgrado e contro la morte:

Già anche noi sappiamo dividerci in due.

Ma solo in corpo e sussurro interrotto.

In corpo e poesia. [Ogni caso 319]

Szymborska non sarebbe la poetessa dell’epoca dei grandi dubbi se non si appellasse a una salvezza tramite la propria opera. "La vendetta di una mano mortale" in lei si manifesta in varie forme, anche nel puro gioco dell'ironia.

Qualche anno addietro, a Berkeley, durante la lettura in inglese di sue poesie, ho avuto l'occasione di persuadermi che la brillantezza intellettuale dei suoi versi, sotto cui si cela un contenuto serio, poteva essere benissimo compresa e applaudita dal pubblico, un pubblico formato quasi interamente da giovani. Dovrei però anche ricordare cosa essi avevano gradito di più: gli ascoltatori di entrambi i sessi erano scoppiati a ridere (e io con loro) durante la lettura di In lode di mia sorella:

Mia sorella non scrive poesie

né penso che si metterà a scrivere poesie. [Grande Numero 375]

Allora mi sono reso conto che almeno la metà dei presenti si stava divertendo tanto perché aveva sulla coscienza il fatto di aver scritto delle poesie…



[1] C. Miłosz, A nie mówiłem?, «Tygodnik Powszechny», 1996, n. 41, p. 8 [traduz. inedita di G. Tomassucci].

[2] Le citazioni in traduzione italiana delle poesie di Wisława Szymborska citate da Miłosz sono tratte dal volume La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), a cura di P. Marchesani, Milano, Adelphi, 2009. Accanto a ogni citazione sono indicati il nome della raccolta e i numeri delle pagine in cui essa compare.
*******************
Le quattro del mattino

Ora dalla notte al giorno.
Ora da un fianco all’altro.
Ora per i trentenni.

Ora rassettata per il canto dei galli.

Ora in cui la terra ci rinnega.
Ora in cui il vento soffia dalle stelle spente.
Ora del chissà-se- resterà-qualcosa-di-noi.

Ora vuota.

Sorda, vana.
Fondo di ogni altra ora.

Nessuno sta bene alle quattro del mattino.
Se le formiche stanno bene alle quattro del mattino
-le nostre congratulazioni. E che arrivino le cinque,
se dobbiamo vivere ancora.


Lode della cattiva considerazione di sé

La poiana non ha nulla da rimproverarsi.
Gli scrupoli sono estranei alla pantera nera.
I piranha non dubitano della bontà delle proprie azioni.
Il serpente a sonagli si accetta senza riserve.

Uno sciacallo autocritico non esiste.
La locusta, l’alligatore, la trichina e il tafano
vivono come vivono e ne sono contenti.

Il cuore dell’orca pesa cento chili
ma sotto un altro aspetto è leggero.

Non c’è nulla di più animale
della coscienza pulita
sul terzo pianeta del Sole.
Autonomia
In caso di pericolo, l’oloturia si divide in due:
dà un sé in pasto al mondo,
e con l'altro fugge.
Si scinde d’un colpo in rovina e salvezza,
in ammenda e premio, in ciò che è stato
e ciò che sarà.
Nel mezzo del suo corpo si apre un abisso
con due sponde subito estranee.
Su una la morte, sull’altra la vita.
Qui la disperazione, là la fiducia.
Se esiste una bilancia, ha piatti immobili.
Se c’è una giustizia, eccola.
Morire quanto è necessario, senza eccedere.
Ricrescere quanto occorre da ciò che si è salvato.
Già, anche noi sappiamo dividerci in due.
Ma solo in corpo e sussurro interrotto.
In corpo e poesia.
Da un lato la gola, il riso dell'altro,
un riso leggero, di già soffocato.
Qui il cuore pesante, là non omnis moriar,
tre piccole parole soltanto, le piume d’un volo.
L'abisso non ci divide.
L'abisso circonda.
In lode di mia sorella
Mia sorella non scrive poesie,
né penso che si metterà a scrivere poesie.
Ha preso dalla madre, che non scriveva poesie,
e dal padre, che anche lui non scriveva poesie.
Sotto il tetto di mia sorella mi sento sicura:
suo marito mai e poi mai scriverebbe poesie.
E anche se tutto ciò suona ripetitivo come una litania,
nessuno dei miei parenti scrive poesie.
Nei suoi cassetti non ci sono vecchie poesie,
né ce n'è di recenti nella sua borsetta.
E quando mia sorella mi invita a pranzo,
so che non ha intenzione di leggermi poesie.
Fa minestre squisite senza secondi fini,
e il suo caffé non si rovescia su manoscritti.
In molte famiglie nessuno scrive poesie,
ma se accade - è raro che sia uno solo.
A volte la poesia scende a cascate per generazioni,
creando gorghi pericolosi nel mutuo sentire.
Mia sorella pratica una discreta prosa orale,
e tutta la sua opera scritta consiste in cartoline
il cui testo promette la stessa cosa ogni anno:
che al ritorno delle vacanze
tutto quanto
tutto
racconterà.


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