Quel mattino al blocco 26 la confusione era indescrivibile. Due giorni prima lo scrivano del Kommando si era ammalato e per sostituirlo avevano tolto Wladyslaw Wawrzyniak dalla camera oscura. Ma Wladyslaw non era affatto pratico di quel lavoro e aveva combinato un pasticcio con le convocazioni: alle dieci in corridoio si erano formate due file di prigionieri, una di uomini e una di donne. I deportati stavano zitti, impietriti, per non suscitare la rabbia dei loro aguzzini, ed erano i Kapo a litigare, disputandosi la precedenza per le fotografie. Tutti strillavano di essere stati convocati per primi. Il fotografo Brasse uscì in corridoio e urlò che facessero silenzio.
«Basta! Faremo così: verrà avanti una donna e poi un uomo, una donna e un uomo, dalle due file, alternandosi. Così perderete tutti meno tempo. Va bene?»
Le guardie lo scrutarono con occhi bovini, finalmente in silenzio per mezzo minuto. Poi, come se non avesse nemmeno parlato, ricominciarono a litigare.
«Devo chiamare l’Oberscharführer Walter?»
La minaccia calmò gli animi e Brasse annuì soddisfatto.
«Faremo come dico io. Avanti il primo!»
Toccò subito a un uomo ancora giovane, corpulento, che entrava appena nella divisa. Al mattino ne aveva chiesta una più larga e questo gli era costato un occhio nero: Brasse fu costretto a mandarlo via.
Poi arrivò una donna di mezza età: era ebrea, aveva i capelli biondi mossi e uno sguardo che illuminò l’obiettivo del fotografo polacco. Era lo sguardo di una madre che non si fa abbattere da nessuna difficoltà, che resiste a tutto semplicemente perché non può lasciarsi andare: prima di soccombere deve salvare i figli e le figlie, i fratelli e le sorelle, i mariti e i padri. Questo teneva in vita certe madri, anche ad Auschwitz. Brasse le sorrise, grato di quei buoni e inespressi sentimenti.
Dopo fu la volta di un prigioniero politico olandese, che davanti alla Zeiss inarcò le sopracciglia e aggrottò la fronte, come se temesse che la macchina fotografica potesse rubargli l’anima.
Poi venne un ragazzo, un altro olandese, anche lui prigioniero politico: per quanto lo pregasse, non riuscì a fargli guardare l’obiettivo. Nello scatto di fronte il giovane tenne gli occhi ostinatamente bassi. Brasse fu sul punto di imprecare e dargli addosso, ma si trattenne: non voleva che il Kapo lo bastonasse e così si tenne una fotografia che già sapeva malriuscita. Era la prima, da quando aveva iniziato a lavorare al Servizio Identificazioni, e in qualche modo sarebbe riuscito a giustificarla.
Quando fu la volta di una nuova donna, una ceca, in corridoio scoppiò di nuovo il pandemonio e lui uscì fuori di corsa, esasperato, a vedere.
Un Kapo e una Kapo si rotolavano a terra, lottando avvinghiati sotto l’incitamento feroce dei rispettivi colleghi, mentre una ragazza molto giovane era riversa sul pavimento, le mani sul volto insanguinato. Come Brasse aprì la porta tutti si volsero a guardarlo: sembravano bambini presi con le mani nel sacco. I Kapo si alzarono e nel silenzio generale si sentì solo il debole pianto della prigioniera.
«Cos’è successo?»
«A te non dobbiamo nessuna spiegazione, pezzo di merda» replicò sprezzante il Kapo coinvolto nel litigio.
Brasse lo guardò e con una stretta al cuore si accorse che era Wacek Ruski.
«Ha picchiato una delle nostre prigioniere» si giustificò la sua avversaria.
«E perché?»
«Le ho dato una carezza e mi ha guardato male, ecco perché!»
«Bugiardo! Sappiamo dove dai le carezze, tu! Le hai messo una mano tra le cosce…»
Mentre i Kapo ricominciavano a beccarsi, Brasse osservò l’oggetto della loro contesa: la piccola ragazza ferita non poteva avere più di quattordici anni e appariva tanto fragile da rendere assurda l’accusa di Ruski. Quell’essere così debole non avrebbe mai sfidato un energumeno come Ruski, neanche con il solo sguardo. Quando si fu alzata faticosamente da terra, Brasse la indicò.
«Fate passare lei»
La ragazzina entrò nello studio con passo incerto e si sedette, o meglio si arrampicò sulla sedia girevole. Sembrava davvero un uccellino spaurito e i capelli mal rasati le davano l’aspetto di un pulcino, spelacchiato e appena nato. Brasse si avvicinò alla sedia.
«Come ti chiami?»
«Czeslawa»
«Sei polacca come me?»
Lei annuì.
«Perché sei qua?»
«Hanno arrestato mio padre e con lui tutta la mia famiglia, ma non abbiamo fatto niente…»
Gli occhi le si riempirono di lacrime e dovette sforzarsi per non piangere. Non voleva attirare l’attenzione delle guardie e non voleva altre botte.
«Adesso stai tranquilla. Facciamo le fotografie e poi torni in pace al tuo blocco…»
La ragazza tirò sul col naso e si mise in testa il berretto, che strinse con un gran fiocco sulla nuca. Poi, con la manica della divisa, si pulì le labbra dal sangue: era lì che l’aveva colpita Ruski. Cercò anche di sorridere, come se quelle fotografie la riportassero ai giochi e ai giorni dell’infanzia, ma non ci riuscì.
Brasse la osservò attraverso il mirino. Con la divisa enorme e informe che le cascava addosso da tutte le parti e il berretto calcato sulla fronte sembrava un maschietto e lui sentì la tenerezza invadergli il cuore. Non era giusto che il destino se la prendesse con una creatura tanto innocente. Fu lui, ora, a mordersi le labbra per impedire alle lacrime di sgorgare. Deglutendo, chiese a Czeslawa di stare ferma e scattò. Poi la accompagnò per mano fuori dallo studio. Sperò che un giorno, dopo la guerra, un familiare o un amico trovasse la sua foto negli archivi del campo: così anche lei sarebbe stata ricordata. Non sarebbe morta per niente.
Czeslawa Kwoka (1928-1943), internata nel dicembre del 1942. Le fu assegnato il numero 26947 e la sigla “PPole” (prigioniera politica polacca).***
Con questo ho finito: proseguo per i fatti miei la lettura di Il fotografo di Auschwitz di Luca Crippa e Maurizio Onnis.
Mi auguro di non aver fatto qualcosa di illegale pubblicando questi due passi; spero anzi che leggerli sia il mezzo per far avvicinare i miei soliti lettori ad un libro che trovo davvero toccante.
Resto a disposizione di autori ed editore per rimuovere tutto o in parte il materiale pubblicato.