D’amore e crudeltà

Creato il 28 giugno 2011 da Fabry2010

di Alfonso Nannariello

Da noi il sole non riscalda troppo, e non resiste tanto, come invece a Napoli. A noi lascia dentro sempre un po’ di gelo.
Da noi il Vulture vicino, pieno dell’acqua di un diluvio, non è più un vulcano che fonde la pietra in lava, come fa il Vesuvio.
Da noi non c’era un santo che faccia da funaro, che sbrogli nodi diventati lacci, che scrosti il cuore da scaglie troppo nere, che risquagli il sangue come san Gennaro.
Da noi la terra ancora, però trema furente non più da fumarole, ormai già quasi spente. Non tutte, in verità.
Da noi lo stesso ci sono state mogli a cui il sangue, fuso dal calore di un altro amore, dalle crepe dell’anima e qualche altra fenditura, cominciò a mormorare, e poi a ribollire come una solfatara.
Anche se non lunga, pure da noi, c’è una lista di passioni tristi, di donne che, pure senza lutto, o forse proprio per togliersi l’abito nero del vituperio e del maltrattamento, slacciarono a inattesi e sconosciuti la corazza del corsetto.

La storia che più scosse, di certo la più brutta, fu quella di Raffaella Pignone, una ragazza che Vito Acocella dichiara «di rara bellezza e di animo leggero». Forse perché non era alta di statura, o forse perché era stata solo bambola per qualche trastullo, era detta Ninetta.
Vincenzo Di Milia la chiese e l’ebbe in moglie. Forse perché così s’era abituata o perché cercava ancora un soffio vitale che le mettesse un’anima dalle narici, prese ad incontrarsi con Canio Sciglimpaglia. Evidentemente la freccia che Cupido aveva scagliato per farli incontrare era ancora vagante, tanto che il 21 aprile del 1830, per mano di Canio e di Ninetta, la sua punta trapassò le tempie del marito.
Nonostante il cadavere fosse nascosto, Canio e lei furono scoperti. Processati, in nome del Re, che non sapeva niente, che non aveva rancore, né era risentito, la Gran Corte Criminale di Avellino, senza restituirgli moglie e vita, vendicò l’adulterio e la morte di Vincenzo condannando i due alla ghigliottina. La sentenza di Canio fu eseguita ad Avellino. Quella di Ninetta a Calitri, il 23 giugno 1832.
Ninetta aveva 28 anni. Il suo patibolo fu appositamente allestito in Largo Croce. Affinché servisse da ammonimento per tutto l’intorno, l’esecuzione fu pubblicizzata con manifesti nei paesi vicini, con tanto di indicazioni di giorno, luogo e ora. Da noi arrivò tanta gente, proprio come a una fiera per un affare, o a una sagra e ad una festa popolare.
Il giorno prima che fosse giustiziata Ninetta fu tradotta a Calitri dal carcere di Avellino, scortata da un contingente di cavalleria, e accompagnata dal boia che l’avrebbe sciolta dai nodi della carne e dal suo corpo, e dal prete che le avrebbe sorretto e alleggerito l’anima assolvendola da tutti i suoi peccati.
La notte Ninetta la trascorse nella Cappella del Carmine, dove dopo sorse la chiesa di San Michele, dove oggi sono le suore.
Da lì sentì montare il patibolo, e la gente raccogliersi dall’alba. Verso le sette con un rullo di tamburi, tra una doppia fila di soldati, Ninetta fu condotta non troppo più in là.
Poi un’onda di commozione invase i presenti. E nel brivido in cui tutta la piazza ammutolì, il sangue lasciò una larga chiazza.
Nella spianata in cui fu decapitata, fu spostata la chiesa madre, dedicata a Canio, il nostro santo protettore, anch’egli condannato, proprio come Ninetta e pure san Gennaro, al capo mozzato.



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