La tecnica non va oltre queste poche cose, eppure al cospetto di tali esigui accorgimenti, l’intento del film, ovvero quello di compiere una disamina su concetti come l’amore, la sessualità e la tenerezza, viene colpito, o meglio, chi viene colpito è lo spettatore perché gli esseri umani (tutti di Parma e dintorni) che si susseguono hanno per forza di cose una visione del mondo e della vita che definirei bislacca, ma ciononostante le loro parole possiedono sostanza e donano gentilmente il seme del pensare.
Di storie ce ne sono molte, ma dietro quelle di facciata ne palpitano altre che permettono di passare ai raggi x la società di quasi trent’anni fa. Ed ecco che la prima testimonianza, quella della maestra terrorizzata dall’atto sessuale, mette in luce uno dei cardini della filmografia agostiana – fin dall’inizio: Il giardino delle delizie (1967) – che qui trova riscontri empirici, infatti la condizione di paura della donna nei confronti della sessualità pare derivare, a detta sua, da un’educazione religiosa castrante e reprimente.
La carrellata di persone immortalate si immerge sempre di più nei bassifondi sociali e vira sarcasticamente o forse no in quei territori dove l’amore è difficile da rintracciare, se non impossibile: la prostituzione, e Agosti con il suo interloquire decisamente alla mano cerca di far aprire i suoi soggetti di fronte alla mdp. La genuinità di queste memorie è così palpabile che in alcuni frangenti si avverte l’imbarazzo o anche il sottile fastidio nel raccontare le proprie vite fatte di miserie nelle quali, però, Agosti trova quel che cerca, cristalli, frammenti, pezzetti di esistenza precaria che nelle difficoltà hanno scovato la loro idea personale di amore. Ognuno di questi personaggi, infatti, desume dalle esperienze passate un amaro precipitato di saggezza che va dalla sapienza dell’ex donna di strada al disincanto di Gloria, per finire nel miglior segmento dell’opera che è quello di Lola, la quale fornisce una giusta chiosa: se allevi dei piccioni devi amare anche la loro merda.
Ma D’amore si vive (1984) è un documentario “famoso” grazie alla presenza del piccolo Francesco, vera star della pellicola il cui stralcio di conversazione gira e rigira nel web da molto tempo.
Probabilmente è opinione comune ritenere le congetture del bimbo di 9 anni l’apice del film, vuoi perché esprimono candore, vuoi perché alcune affermazioni hanno significato condivisibile e importante, eppure ritengo che un bambino con quell’età di certe cose non dovrebbe parlare, giusto o sbagliato non è questo il punto: per pensare al bene c’è tutto il tempo, a 9 anni è meglio dedicarsi agli aspetti ludici della vita (comunque sottolineati da Frank) che sono, appunto, la fonte di un corretto e proficuo rapportarsi con se stessi e gli altri.
C’è da dire che erano altri tempi (per il cinema e tutto il resto), ma c’è anche da dire che questo inserto appare più una strizzatina d’occhio allo spettatore che una maglia del tessuto filmico.
In breve: un documento d’Italia prezioso e curioso, Agosti è investigatore scaltro e provocatorio: l’ultima polisemica sequenza lascia pesanti detriti nello spettatore.