"Coincidences do not exist" (c) Paolo Castronovo
Sono venuti tutti gli amici a squadernarmi i pensieri.
Fisicamente siamo sempre più lontani, come l’aquilone dalla sua coda di spago. E proprio l’aquilone che qualcuno lanciò sulle pagine di Conversazione in Sicilia mi fa ripensare a quell’estate d’una dozzina d’anni fa che iniziò con la decisione di dimagrire.
Passare da 100 e passa a 78 chili fu come volare. Le mie chiappe rinsecchite le misi sulla sella del Typhoon e col buon Gaetano facevamo su e giù da Palermo, con qualsiasi tempo, sempre in due e senza la scodella in testa.
L’ormone ci sbrodolava su e giù lungo il sistema sanguigno, eravamo un grumo di speranze. Mi piace pensare che lo siamo ancora. Avevo pure gli occhiali, il mio primo paio: quadrato, nero, orribile.Quegli occhiali poi sono stati rimpiazzati da modelli sempre più leggeri, sino al nuovo occhialino leggero leggero come un bacio dato al risveglio.
I miei amici… Eravamo una comitiva di quattro disperati, con Lucio che già sfumacchiava e io che combattevo i chili di troppo e le mie battaglie fatti di ideali coriacei e senza tempo. Ideali che sapevano di buono e stantio come il pane casalingo che pian piano si indurisce all’aria.
Con Gaetano si babbiava spesso e volentieri, facendo su e giù da un rivenditore di patatine e l’altro. Se c’era fame di arancine e di chilometri si viaggiava sino a Palermo e scambiavamo la faccia della Montessori con due arancine bomba, almeno 400 grammi di riso e altrettante calorie che poi significavano inevitabilmente un giorno di digiuno per scontare il peccatazzo di gola.
Ci piaceva stare insieme, sognare impossibili storie d’amore e di tette, terrorizzati di non essere abbastanza belli da nudi, poi c’era l’eredità degli anni 50 in cui tutti volevamo vivere…Già, gli anni di Fonzie e dei teddy boys, coi jeans pro-orchite e il gel che poi nevica sulle scapole. Non avevamo un nome, nessuna sigla. Non che ci mancasse fantasia, quella ne avevamo pure troppa. Avevamo dato noi i nomi ai nostri nemici e poi quei nomi s’erano appiccicati nella memoria di tutti: da una parte i Pruni, dall’altra la Banda Monnezza. In mezzo noi, che eravamo buoni a criticare e a movimentare la vita placida dell’oratorio.
Andavamo spesso da Ricordi o a prendere un Pizza Sub dalla signora Mineos (col genitivo sassone ormai appiccicato come una condanna). 2500 lire per un paninazzo fatto con la pasta di pizza piegata in due e rimpolpata di mozzarella, prosciutto e altre ipercaloriche meraviglie. Sopra ci mettevamo birra e cocacola.
Poi andavamo al Johnatan Club, io guardavo gli altri giocare a stecche o fare quel gioco in cui poi ti spuntava la donnina nuda, calcolando quanti gettoni ci volevano per vedere la pelliccetta pubica, conveniva andare a comprare un’intera annata di Playboy e ammazzarsi di seghe. Cosa che effettivamente il Carciofo fece, secondo quanto ci diceva lui stesso, vantandosi di aver passato un’intera giornata a mollo della Jacuzzi per vedere qual era il limite fisico del suo pisello.
Poi arrivarono le femmine e qualcuno perse la testa. Soprattutto Ciccio che aveva dalla sua gli occhi azzurri e quella bastardaggine che alle puelle piace da impazzire. Sapeva pure suonare alla chitarra le canzoni degli Articolo 31 e aveva tutta una filosofia di vita che aveva succhiato da Rambo e da quel telefilm di minchia che era Classe di Ferro. Ciccio ce l’ha fatta: è un parà e ha due bambine, belle, bellissime come una promessa mantenuta.
Quasi tutti hanno capito che era arrivato il momento di mettere da parte i sogni per grattugiarci sopra un po’ di dura realtà. Gaetano vive a Palermo e organizza eventi con quel guizzo geniale che l’ha sempre fatto spiccare, Lucio non l’ho mai visto così felice e innamorato, Antonio s’è aperto una boutique. Gli altri sono spariti, hanno scelto di continuare per qualche altro anno a scacciare la noia con qualche altro ettolitro di vino.
Io me ne sono andato prima, li guardo, ripenso a quelle belle serate in cui ci sembrava di essere invincibili, cazzeggiando alla Rotonda o tornando a casa sempre un po’ più tardi. Come se il mal di testa da sbornia fosse un segno di maturità e non una piccola e pulsante tortura.
Alla fine dell’estate puntualmente andavamo a farci il convegno dell’oratorio, ma anche lì anno dopo anno eravamo sempre meno. E masticavamo sempre più spesso la frase che lampeggia alla fine dell’adolescenza: “ti ricordi?”. Sembra che tutto quello che abbiamo fatto, l’abbiamo portato a termine solo per poi poterne riparlarne oggi. Come che riuscire a fregare qualche Pruno, o battere a stecche qualcuno della Banda Pattume fosse stata una stella di latta da appuntarsi quando uno sogna di riavere i sogni che aveva a 7 anni.
Però mi fermo, ripenso a come mi piaceva fare curva dopo curva la stessa strada coi miei amici, con loro e i loro vizi, le loro paure. Quelle che avevo pure io. La chimera dell’impegno politico, le marlboro fumate guardando il cielo, le missioni punitive, le buffonate per attirare l’attenzione delle ragazze a cui spuntavano piano piano le tette, i concerti di rutti e di scoregge, le gare a chi beveva e mangiava di più.
L’ultima volta che ci siamo rivisti c’era mio padre dentro una cassa. Li ho riabbracciati all’ingresso, senza farli salire in mezzo alle prefiche e ai rosari. Da dieci anni non mi spaventa addentare quella grande avventura che si chiama futuro. Lo capisci davvero che il futuro te lo fai tu, giorno dopo giorno. E che manco la macchina di Doc serve poi a capire che razza di uomo diventerai. Basta poco per cambiare tutto. Era questo il succo della trilogia di “Ritorno al Futuro”: il futuro dipende da una miriade di scelte, sono quelle che ci rendono quelli che siamo. E io ho scelto, ho scelto di sperare.