Tre secoli di Inquisizione in Sardegna, da fine Quattrocento a Settecento inoltrato, ruotano intorno alla “aeretica pravitate“. Durante il Medioevo “col termine di eresia veniva generalmente indicato quanto vi era di orribile, spaventevole e odioso in certi inauditi misfatti, anche non connessi direttamente con la fede”. La pravitas eretica continua a Medioevo finito. Come tale bisogna combatterla, estirparla. Con ogni mezzo. Tra Sei-Settecento, la macchina dell’Inquisizione amministrava annualmente in Sardegna intorno ai 19 mila reali. Di questi, oltre 4000 andavano all’Inquisitore vero e proprio, che stava nella punta alta della piramide gerarchica. Poco più di 40 reali spettavano ai reloxeros, addetti al controllo degli orologi nelle torri del Castello dell’Inquisizione. Altri 40 erano per i chirurghi. Poi c’erano i fiscales e cioè accusatori, gli alguazil, birri, gli alcaydes che svolgevano mansioni di vigilanza, i cappellanos per dire messa, porteros e nuncios per recapitare messaggi, varas e verguettes, commissari e famigli. Tutto un insieme che costituiva l’occhio e l’orecchio dell’apparato di delazione. Tutte queste persone erano necessarie al Tribunale del Sant’Ufizio. Non sempre medici e sirurjanos, barbieri-chirurghi, venivano retribuiti con la tercia di spettanza. Però erano sempre là, pronti, nelle stanze della tortura, quando i presos, i condannati, venivano legati al potro, il cavalletto, oppure issati sulla garrucha, la carrucola.
Nel 1562 arrivò in Sardegna l’inquisitore Diego Calvo ma questo non servì a eliminare “l’ignoranza del popolo”. Passarono dieci annui. Tra il 1572 e il 1688 furono effettuati nell’isola 767 processi. 163 riguardavano le superstizioni, 198 atti contro il Sant’Uffizio, i rimanenti per delitti vari: “eresie, bigamie, incesti, bestemmie ereticali, fornicazioni”. C’entrano sempre il demonio e il sesso. L’anno 1647 fu segnato da una invasione di cavallette. L’anno dopo,1648, la peste. Però i libri del Sant’Uffizio non ne parlano così come non c’è cronaca nei registri dell’Inquisizione di un’altra peste che 1652 al 1657 devastò l’Isola da nord a sud, da est a ovest. La peste veniva chiamata castigo de Dios. La popolazione diminuì di tre quarti.
In Sardegna, la macchina dell’Inquisizione messa in moto dal Sant’Uffizio era una vera e propria fabbrica che la peste tutti i giorni impastava, diffondeva. Si vedevano untori dappertutto. Molte accuse si basavano su invenzioni e menzogne di brujas e brujos, streghe ed eretici, calunnie che poi diventavano prove schiaccianti dentro la camara del tormento. Magia e sesso represso agitano i sentidos degli inquisiti, danno forma alle loro visioni, li inducono a essere dettagliati e precisi su quello che l’inquisitore vuole sentire. Le linee di confine tra vero e falso sono più che labili, inesistenti.
Nel Seicento operarono in Sardegna una quarantina di inquisitores. Erano domenicani, francescani e clero secolare. Tutto veniva verbalizzato da secretarios e notarios, tra una tortura e l’altra.
“L’inquisitore Careña diceva che gli eretici dovevano morire sul rogo poiché non vi era morte più atroce; e che se si potesse escogitare una punizione ancor più terribile questa doveva essere applicata loro”.
“Brujo Juan Concu Garau da dove vieni?”
“Oristano.”
“Sei un missionario convertitore?”
“Nescio.”
“Stringetegli bene i ferri. Tieni il campo ai protestanti?”
“No.”
“Confessa. Stringetegli bene i ferri, che gli taglino i polsi.”
Juan Concu Garau morì in carcere così come un Bartholome Loy di Cagliari. Un Benedetto Battini fu appeso alla forca il 20 febbraio del 1720, sulla piazza di Suelli. Era stato condannato dal Sant’Uffizio per avere detto messa senza essere stato ordinato sacerdote.
“Sei tu prete?”
“Sì.”
“Stendetelo sul cavalletto. Perché vai dalle brusce?”
“Chi lo dice?”
“Le brusce con cui sei andato.”
Il prete y lo ordinario se halla borracho. Si ubriaca il prete e va con le brusce. Una di queste la ha pure empregnada, messa incinta.
“Diego Soddu della diocesi di Ales, preyde, corrente Anno Domini mille e seicento settanta due, è comparso davanti al nostro Santo Uffizio dopo la denuncia di Giovanni Andrea Serra venuto a riferire di aver sentito dire in giro che il preyde tenta le donne. In confessionale ha proposto di giacere con lui in peccato a Elena Cominu moglie di Diego Cadeddu che già sapeva di come il curato Diego la stessa cosa avesse chiesto a Maria Orrù quando questa andò da lui per rispondere sulla Dottrina Cristiana. Altre che ebbero richiesta analoga di peccare furono Atonia Toccu, Maria Esu e Blandonia Fadda”. Brujas di quel terribile Seicento sono ancora Isabel Roca Fundoni, Madalena Fundoni, Beatris Mura, Antonia Pinna, Catelinangela Squirro che fu anche relapsa, recidiva, Callista Manno, Maria Mela, Clara De Logo, Maria De Serra, Ruguita Magis, Elena Escordoni, Antioga Piroddi, Juliana Virdi.
Nell’anno 1700, a Iglesias, Benita Cossu denunciò il capraio Sebastiano Lampis di possedere ben 80 diavoli dentro casa sua. Qualche decennio prima, in un autodafè del 1678, Gavino Fada o Faedda di Macomer, sessant’anni, fu condannato dal Tribunale dell’Inquisizione, perché era solito far mangiare ostie ancora non consacrate alla gente che ricorreva alle sue magie. Nel Marghine lo hechizero Faedda aveva fama di tener lontano il male dalle greggi di pecore. I pastori lo portavano fin dentro i recinti e lo hechizero Faedda benediceva le pecore con acqua santa, leggeva in un libro di preghiere. Non sempre funzionava. Una volta, dopo la magia morirono 35 pecore in un colpo solo.
“Nos, inquisidor Careña, autorizziamo l’alguacil a mettere sul potro e a dare buoni tratti di corda in garrucha per lo brujo Antonio Virdi, figlio burdo di Juliana Virdi, di razza di banditi, razza cainita.”
“Brujo Nemiah Josefo, giudeo”. Comparve con il cappio al collo. “Impiccatelo e portatene qui un altro!”
“Brujos Franciscu Leanu et Catzillo Boeta: come mai non vi siete presentati?”
“Nessuno è venuto a cercarci.”
“Ma era vostro dovere venire a denunciare.”
“Denunciare cosa?”
“Brujos et brujas.”
“Non spetta a un mugnaio e a un fabbro denunciare.”
“Ve ne pentirete. Il mugnaio legatelo alla mola. Il fabbro issatelo nella in alto, con la garrucha.”
In aeretica pravitate fu Giovanna Seque Moro di Cossoine, settant’anni. “Era stata incarcerata nell’Arcivescovado di Sassari per sortilegi, accusata da alcuni testimoni di avere eseguito superstizioni semplici”. Non era cioè in commercio con il diavolo. Giovanna Seque Moro preparava filtri amorosi ed altri incantesimi mescolando in intruglio un teschio, ossa di morto, acqua benedetta e corde di campane. Era considerata una vecchia bruscia. Una volta convinse un prete a eseguire una delle sue magie. In cambio di 8 reali gli consigliò, per farsi passare la tristezza, di acquistare un gallo nero, altro mezzo reale, e di portarglielo. Alla povera bestia, Giovanna Seque Moro trafisse la testa con spille e spilloni acquistate dal prete, altro mezzo reale.
“Il tuo nome!”
“Valda Nemiah.”
“Sei tu un’ebrea? Cosa ci fa un’ebrea a Chentomines?”
“Ci siamo, come molti. Da generazioni.”
“Da quando?”
“Da quando i re di Spagna ci esiliarono insieme ai moriscos.”
“Sei quindi juadaizante e maometista, oltre che bruja.”
“No.”
“Allora sei solo una brussa bagascia?”
“No.”
“Ha venduto il tuo corpo?”
“No.”
“Altre bruje dicono di averti visto in campo brujo.”
“Non è la verità.”
“Ma non è neppure menzogna.”
“Io non sono una bruja.”
“Lo sei invece.”
Che venga incatenata, vestita col sambenito e in capo le venga messa la corocha dopo averle tagliato i cappelli. Indi venga arsa. Perché ebrea e morisca. Relapsa.
La bolla papale Summis desiderantes (1484) e il Malleus maleficarum (1487), martello per colpire e schiacciare streghe ed eretici, sono due testi scritti per la fabbrica dell’Inquisizione. Sono l’elaborazione sistematica della superstizione delle streghe, terribile aberrazione del pensiero medievale. Né l’Umanesimo né la Riforma possono mettere fine a questa follia. I nuovi tempi e la nuova scienza non hanno saputo respinger subito da sé gli orrori della persecuzione delle streghe. La fabbrica dell’Inquisizione è potuta andare avanti per tanto tempo anche perché quasi tutti, nell’alto e nel basso furono indotti a credere e far credere che il falso fosse vero. Furono in pochi a capire e voler far capire “che le fantasie delle streghe stesse, le loro cavalcate nell’aria e le loro orge sabbatiche” altro non erano che “parti della propria immaginazione”. Una verità che non diventò purtroppo convinzione di massa e tardò ad affermarsi nel Sud e nelle Isole. Il diavolo, che è spirito, non fece mai mancare la sua immanenza e incombenza alla fabbrica dell’Inquisizione. Era il diavolo che cercavano gli inquirenti e i torturatori, il diavolo in corpo. Ma non era possibile trovarlo.
Il Sant’Uffizio intanto continuava la sua opera, perlomeno sino agli inizi del XVIII secolo. Verso il 1708 la tragedia dell’Inquisizione sarda si avviò all’ultimo atto sotto forma di farsa. Era capitato che tale don Giovanni Francesco Santarello, ottantenne, alguacil mayor del Tribunale, si era segretamente unito in matrimonio con una donna del basso. Senza chiedere le prescritte autorizzazioni. Così fu deposto dal suo grado e non venne rimpiazzato. Non c’era chi potesse mandare avanti le pratiche. Nel 1718, due anni prima che la Sardegna passasse ai Savoia, “l’ultimo inquisitore Juan Antonio Olivares de Torres era fuggito da Sassari in seguito all’arrivo delle truppe di Carlo VI”. E pensare che questi vecchi osceni e questi codardi ebbero potere di vita e di morte su streghe ed eretici.
Visia anche il sito www.natalinopiras.it
Featured image, scena di inquisizione di Francisco de Goya.
Tagged as: Cultura, Giornalismo online, narrativa, opinioni online, Rosebud - Giornalismo online
Categorised in: 862, Narrativa e Poesia, Tutti gli articoli