brano tratto da: Del suicidio, Immanuel Kant – 1785
(… ) Il suicidio può essere considerato da ogni lato, da uno appare biasimevole, da un altro permesso o perfino eroico.
Il suicidio ha dapprima un lato apparente di ammissibilità e permissibilità. I suoi difensori dicono: l’uomo dispone liberamente, certo senza lesione del diritto degli altri, dei beni della Terra. Per quel che concerne il suo corpo egli può disporne in molte parti. Egli può, per esempio, lasciarsi aprire un’ulcera, non tener conto di una cicatrice, amputare un membro ecc., rispetto al corpo gli è concesso di fare ciò che gli sembra consigliabile e conveniente, non deve allora essere autorizzato a togliersi la vita, se egli vede che ciò è per lui quanto di più conveniente e consigliabile?
Se vede che ormai non può vivere in nessun modo, se in tal modo può sfuggire a tante pene, a tanta sfortuna e vergogna? E sebbene ciò sia una privazione dell’intera vita, in tal modo si sfugge una volta per tutte a ogni male; ciò sembra essere molto seducente.
D’altra parte noi vogliamo considerare l’azione solo in se stessa e non dal lato della religione. Fintantoché abbiamo l’intenzione di conservare noi stessi, a questa condizione possiamo disporre del nostro corpo. Così uno può, per esempio, farsi amputare un piede quando gli è di ostacolo alla vita. Abbiamo dunque disposizione sul nostro corpo per la conservazione della persona; colui che, però, si priva della vita non conserva in tal modo la sua persona; se infatti dispone della sua persona, non del suo stato, allora si priva di se stesso. Ciò è contrario al più alto dovere verso se stessi, poiché in tal modo si sopprime la condizione di tutti i doveri restanti. Ciò va al di là di tutti i limiti dell’uso del libero arbitrio, poiché l’uso del libero arbitrio è possibile solo per il fatto che il soggetto esiste.
Il suicidio ha inoltre un aspetto apparente, vale a dire quando il prolungamento della vita poggia su circostanze tali, che possono sopprimere il valore della vita, nelle quali non si può più vivere conformemente alla virtù e al senno, e dunque si deve porre termine alla vita per un motivo nobile.
Il suicidio di Catone del Guercino 1641
Coloro che difendono il suicidio da questo lato adducono l’esempio di Catone, che si uccise dopo avere compreso che non gli sarebbe stato possibile sfuggire dalle mani di Cesare, mentre tutto il popolo contava ancora su di lui; non appena egli, in quanto sostenitore della libertà, si fosse sottomesso, gli altri avrebbero pensato: se Catone si sottomette, che dobbiamo fare? Se egli invece si fosse ucciso, i romani avrebbero pututo ancora sacrificare le loro ultime forze alla difesa della loro libertà; cosa doveva fare Catone? Sembra dunque che egli considerò necessaria la sua morte; pensò: poiché non puoi più vivere come Catone, non puoi più vivere affatto. Tenendo conto di quest’esempio si deve certamente ammettere che in un caso simile, in cui il suicidio è una virtù, esso ha le apparenze grandemente a suo favore.
Questo è anche l’unico esempio che ha dato al mondo l’occasione di difendere il suicidio. Si tratta però anche dell’unico esempio nel suo genere. Si sono verificati alcuni casi simili. Anche Lucrezia si uccide, ma per pudore e per la furia della vendetta. Certo è un dovere conservare il proprio onore, particolarmente per il secondo sesso, presso il quale questo è un merito; ma si deve cercare di salvare il proprio onore solo nella misura in cui ci si abbandona per propositi egoistici e voluttuosi, ma non, come qui, nel caso in cui ciò non dipendeva da lei. Avrebbe dovuto piuttosto resistere per difendere il suo onore finché non fosse stata uccisa, allora avrebbe agito giustamente e non sarebbe stato un suicidio.
Al suicidio non può obbligarmi nessuno che stia sotto il sole, nessun reggente. Il reggente può obbligare i suoi sudditi a rischiare la loro vita per la patria contro il nemico, e se anche si muore in questa occasione, non si tratta di suicidio, bensì ciò dipende dal destino. Al contrario non è nuovamente conservazione della vita, se si ha paura della morte, che il destino già necessariamente minaccia, e si è vigliacchi. Chi in questa occasione fugge per salvare la propria vita dal nemico, e pianta in asso tutti i suoi, è un vigliacco, se invece difende sé e i suoi fino alla morte, allora non è suicida, ciò è invece pensato in modo generoso e nobile; infatti la vita in sé e per sé non si deve in alcun modo valutare molto, bensì devo cercare di mantenere la mia vita solo tanto quanto sono degno di vivere. Si deve fare una differenza tra un suicida e colui che ha perso la propria vita a causa del destino.
Chi abbrevia la sua vita a causa della smodatezza è bensì colpevole di questo per la sua sconsideratezza, la sua morte gli può dunque essere imputata indirettamente, ma non direttamente. Egli non intendeva uccidersi. Non si tratta di morte premeditata. Infatti tutti i nostri falli sono culpa o dolus. Sebbene qui non ci sia dolus, c’è però culpa. A costui si può dire: tu stesso hai colpa della tua morte, ma non sei un suicida.
E’ l’intenzione di distruggere se stessi che costituisce il suicidio. Non devo dunque fare della smodatezza, che è la causa dell’abbreviazione della vita, un suicidio, poiché, se sollevo la smodatezza al rango di suicidio, con ciò viene a sua volta abbassato il suicidio al rango della smodatezza. C’è dunque una differenza tra la sconsideratezza, presso la quale permane ancora un desiderio di vivere, e l’intenzione di uccidersi.
Le più grandi violazioni dei doveri verso noi stessi producono o ribrezzo con orrore, e di questo tipo è il suicidio, o ribrezzo con disgusto, e di questo tipo sono i crimina carnis. Il suicidio causa un ribrezzo con orrore, poiché ogni natura cerca di conservarsi. Un albero ferito, un corpo vivo, un animale; e proprio presso l’uomo la libertà, che è il grado più alto della vita e che costituisce il valore della stessa, dovrebbe essere un principium per distruggere se stessi? Ciò è la cosa più spaventosa che si possa pensare. Infatti chi è giunto fino al punto di essere ogni volta sovrano della propria vita, lo è anche della vita di ogni altro, a costui sono aperte le porte di ogni vizio, e prima che lo si possa pigliare è pronto a togliersi dal mondo. Il suicidio suscita dunque orrore, ponendosi l’uomo con esso sotto la bestia. Noi guardiamo a un suicida come a una carogna; verso colui che muore per i casi del destino si ha compassione.
I ldifensori del suicidio cercano di spingere la libertà al grado più alto, la qual cosa è lusinghiera e fa sì che le persone siano in grado di togliersi la vita, se vogliono. Perciò anche persone benintenzionate difendono il suicidio da questo punto di vista. Poiché la vita si può sacrificare sotto molte condizioni (se non posso conservare la mia vita altrimenti che attraverso la violazione dei doveri verso me stesso, sono obbligato piuttosto a sacrificarla che a dover violare i doveri verso me stesso), così, d’altra parte, il suicidio non è permesso a nessuna condizione.
L’uomo possiede un’inviolabilità nella sua persona, ciò che ci è affidato è qualcosa di sacro. Tutto è soggetto all’uomo, solo egli non deve strappare sé a se stesso.
A un essere che esistesse attraverso la sua necessità sarebbe impossibile distruggersi; un essere che non esiste necessariamente considera la sua vita come la condizione di tutto. Egli vede che la vita gli è affidata, lo sente, se la rivolge contro se stesso, sembra come se egli si ritraesse tremante, in quanto viola questo santuario che gli è stato affidato. Cio su cui un uomo può disporre dev’essere una cosa. Anche gli animali vengono qui considerati come cose; l’uomo, però, non è una cosa, se ciononostante dispone della sua vita, si abbassa al valore della bestia. Chi tuttavia si prende come un qualcosa, che non rispetta l’umanità, che si fa cosa, costui diviene un oggetto del libero arbitrio per chiunque; con costui ognuno può fare in seguito quello che vuole, egli può essere trattato dagli altri come un animale, come una cosa; ci si può esercitare su di lui come su un cavallo o un cane, poiché egli non è più un uomo; egli ha fatto di se stesso una cosa, perciò non può pretendere che gli altri in lui debbano rispettare la sua umanità, poiché egli stesso l’ha già gettata via.
L’umanità è però degna di rispetto e se anche l’uomo è un cattivo uomo, pur tuttavia è degna di rispetto l’umanità nella sua persona. Il suicidio non è quindi riprovevole e non permesso perché la vita è un tale bene, poiché in tal caso dipende da ognuno, se la ritiene un grande bene. Secondo la regola del senno togliersi di mezzo sarebbe spesso il mezzo migliore, ma secondo la regola della moralità ciò non è permesso a nessuna condizione, perché si tratta della distruzione dell’umanità, poiché l’umanità viene posta al di sotto dell’animalità. Altrimenti nel mondo ci sono molte cose assai più in alto della vita. L’osservazione della moralità è molto più in alto. E’ meglio sacrificare la vita che perdere la moralità.
Non è necessario vivere, è invece necessario che si viva onorevolmente fintantoché si vive; chi tuttavia non può più vivere onorevolmente non è più affatto degno di vivere. Ci si lascia comunque sempre vivere tanto a lungo quanto si possono osservare i doveri verso se stessi, senza usare violenza contro se stessi. Colui, però, che è pronto a togliersi la vita non è più degno di vivere. Il motivo pragmatico a vivere è la felicità. Posso togliermi la vita perché non posso vivere felicemente? No, non è necessario che io viva felicemente fintantoché vivo, invece è necessario che io fintantoché vivo, viva onorevolmente. La disperazione non giustifica nessun uomo a togliersi la vita. Infatti, se fossimo autorizzati per la mancanza del divertimento a toglierci la vita, allora tutti i nostri doveri verso noi stessi tenderebbero al piacere della vita; invece l’adempimento dei doveri verso se stessi richiede il sacrifico della vita. Si possono incontrare eroismo e libertà nel suicidio?
Non va bene, se – quantunque con buone intenzioni – si praticano sofismi. Non è nemmeno una uona cosa, difendere virtù e vizio per spirito sofistico. Anche persone che ragionano bene inveiscono contro il suicidio, ma ci sono anche suicidi dove c’è un grande eroismo, per esempio, Catone, Attico ecc. Un tale suicidio non posso chiamarlo vile.
L’ira, l’eccitazione e la follia sono la causa del suicidio nella maggior parte dei casi, perciò quelle persone che a metà dello stesso sono state salvate, si spaventano per se stessi e non osano tentarlo un’altra volta.
C’è stata un’epoca presso i romani e i greci in cui il suicidio portava onore, perciò anche i romani proibivano ai loro schiavi di uccidersi, perché essi non appartenevano a se stessi, bensì ai loro padroni, e dunque erano visti come una cosa, così come ogni altro animale.
Lo stoico diceva: il suicidio è una morte dolce del saggio, egli esce dal mondo come passa da una stanza in cui c’è fumo in un’altra, perché lì non gli piace più. Egli non esce dal mondo perché in esso non è felice, bensì perché lo disprezza. Si è già prima accennato al fatto che per l’uomo è molto lusinghiero avere la libertà di togliersi dal mondo quando lo voglia. Sì, sembra anche esserci qualcosa di morale in ciò, poiché colui che ha il potere di uscire dal mondo quando vuole non può essere sottomesso a nessuno, non può lasciarsi vincolare da niente, può dire le verità più grandi al più grande tiranno, non potendolo questi costringere attraverso nessuna tortura, perché egli può rapidamente togliersi dal mondo, così come un uomo libero può uscire dallo stato, se vuole.
Tuttavia, quest’apparenza si dissolve se la libertà può sussistere soltanto attraverso una condizione immutabile, che non si può cambiare in nessun caso. La condizione è che io non usi la mia libertà contro me stesso per la mia distruzione e, piuttosto, non lasci limitare la mia libertà da nulla di esterno. Questa è la nobile libertà. Non devo lasciarmi spaventare a vivere da nessun destino e da nessuna sfortuna, ma vivere fintanché sono un uomo e posso vivere onorevolmente.
Il lamentarsi sul destino e sulla sfortuna disonora l’uomo. Se Catone, nonostante tutte le torture che Cesare gli avrebbe fatto subire, con anima salda fosse rimasto fermo nella sua decisione, ciò sarebbe stato nobile, non quando si tolse la vita. I difensori e maestri della facoltà di suicidio sono necessariamente molto dannosi per una repubblica. Ci si immagini che secondo una disposizione d’animo generale, la quale fosse coltivata dagli uomini, vi sia facoltà, anzi merito od onore, ad assassinarsi, in tal caso uomini siffatti sarebbero spaventosi per ognuno; infatti assolutamente nella può trattenere dal più spaventoso vizio colui che non rispetta la propria vita addrittura in base a principi; egli non teme nessun re e nessuna tortura. Ogni parvenza si perde, tuttavia, se si pndera il suicidio rispetto alla religione. Noi siamo posti in questo mondo per certe determinazioni e intenzioni; un suicida, però, contrasta il fine del suo creatore. Egli giunge nell’altro mondo come uno che ha abbandonato la sua postazione. E’ dunque da considerare un ribelle contro Dio.
Fintantoché riconosciamo questa verità, che la conservazione della nostra vita appartiene alle intenzioni di Dio, abbiamo il dovere di regolare le nostre libere azioni conformemente ed esse. Non abbiamo alcuna facoltà e nessun diritto di fare violenza alle forze di conservazione della nostra natura e di disturbare la Sapienza nelle sue realizzazioni. Questo debito dev’essere da noi onorato, fintantoché Dio non ci dia l’esplicito comando di lasciare questo mondo.
Gli uomini sono disposti qui come sentinelle e dunque non dobbiamo abbandonare i nostri posti finché non ci dia il cambio la mano benevola di un altro. Egli è il nostro proprietario, noi siamo la sua proprietà e la sua provvidenza procura il meglio per noi. Un servo che si trova sotto la cura di un signore buono agisce in modo punibile se si oppone alle intenzioni dello stesso.
Il suicidio non è permesso ed è riprovevole, tuttavia non perché Dio lo ha proibito, bensì Dio lo ha proibito perché è riprovevole. La nefandezza intrinseca del suicidio deve dunque essere mostrata per prima da tutti i moralisti. Il suicidio si trova generalmente tra coloro che hanno fatto alchimie sulla felicità della vita. Infatti, se qualcuno ha gustato l’artifiico del piacere e non lo può possedere sempre, si sprofonda nel cruccio, nel dispiacere e nella malinconia (…)
to be continued
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